10 Aprile 2017

Fede e suicidio

Alcune lettere giunte in redazione a seguito di due recenti episodi di cronaca accendono i riflettori su un tema delicato come quello del suicidio. Contro il dolore e la solitudine l’unico antidoto è la condivisione.
Fede e disperazione.
Fede e disperazione.
JOHN TAKAI / FOTOLIA

«È straziante e struggente assistere a una persona che si lascia affondare dalla disperazione... Restano le reazioni basite di pietà mista a comprensione e incomprensione per una vita che finisce così, dentro una società progredita, in mezzo alla gente di tutti i giorni che, prima o poi, sarà anche costretta a dimenticare, purtroppo, pure facilmente, come spesso sta avvenendo a contatto di chi viene classificato “meno uguale”». Lettera firmata

«Quando di mezzo c’è un giovane, il suo disagio, possiamo metterla giù come meglio ci aggrada, affibbiando le colpe ai genitori... Possiamo tritare la realtà come vogliamo, svuotare della sostanza le parole e le responsabilità degli aggettivi usati come corpi contundenti. Rimane quel sapore strano che non consente di fare spallucce». Lettera firmata 

«Ciascuno è responsabile della propria vita davanti a Dio che gliel’ha donata. Egli ne rimane il sovrano Padrone. Noi siamo tenuti a riceverla con riconoscenza e a preservarla per il suo onore e per la salvezza delle nostre anime. Siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo» (n. 2280). Così il Catechismo della Chiesa cattolica, mi sembra proprio correttamente e coerentemente con tutta la tradizione della Chiesa. Che così conclude: «Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita» (n. 2283).

Se poi, fino a non tantissimi anni fa, un suicida non aveva diritto a un funerale vero e proprio e non poteva esser sepolto in un «camposanto», e il suo ultimo viaggio era piuttosto accompagnato da disprezzo e giudizio morale negativo, è appunto per il valore simbolico che anche le parole e i luoghi avevano. Volendo ribadire non tanto o non solo la colpevolezza della persona, ma piuttosto l’inconciliabilità tra il Dio della vita e chi quella vita ha concretamente rifiutata una volta per tutte. Almeno per quel frammento di storia che scorre davanti ai nostri occhi, lasciando allora e tanto più ora a Dio di esercitare la sua misericordia come il suo cuore immenso di padre e di madre preferisce.

Noi abbiamo perso la forza evocativa di luoghi e parole, e forse non sempre ciò è del tutto positivo, ma sicuramente ci abbiamo guadagnato in comprensione umana e non-giudizio evangelico. Il suicidio è sempre condannabile come gesto persino dis-umano (e cioè di esseri creati per la vita, ma che questa stessa vita non si sono dati da sé, e rispetto alla quale certamente la morte ne è la naturale conclusione, almeno su questa terra…). Ma tutti siamo molto più consapevoli che a volte i meandri della mente piuttosto che la disperazione, o persino il mistero che ognuno di noi è, ne rendono spesso incomprensibili le motivazioni.

Rimane un gesto estremo, ma anche un tantino egoistico (gesto a cui si riferiscono le lettere qui sopra riportate e ampiamente tagliate per motivi di spazio): io mi posso liberare in un attimo di ciò che mi opprime in qualche modo, ma lasciando qui persone (mogli, mariti, figli, amici) che mi vogliono bene e che si angosceranno per tutto il resto della loro vita, domandandosi perché l’abbiamo fatto e perché non sono riuscite a impedirlo. È un gesto di solito imprevedibile, almeno nei modi e nei tempi. E quasi sempre si può far ben poco per intuirlo o impedirlo.

Quel che si può però fare, sempre, è credere alla vita e contribuire a creare attorno a noi un clima di gioia di vivere. Che vuol dire condividere anche i momenti inevitabili di dolore e solitudine, almeno negli affetti e nell’educazione, non lasciando mai nessuno a cavarsela da solo. Insegnando e testimoniando che il problema non è mai la vita, che è fatta di momenti che noi siamo soliti annoverare tra quelli belli e altri che releghiamo volentieri tra quelli brutti, ma l’idea che ne abbiamo e il nostro atteggiamento verso di essa. Nella maggior parte dei nostri casi, subiamo malattie, nel corpo o nello spirito, inguaribili ma mai incurabili: il Signore «disse loro: “Guardatevi da ogni ingiustizia!” / e a ciascuno ordinò di prendersi cura del prossimo» (Sir 17,14).

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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