Dio creò il giorno e la notte…
E dire che non è nemmeno un brano biblico sconosciuto, anzi! Quante volte mi è capitato di meditarlo, o di ascoltare qualcuno che con sapienza lo commenta e lo «spezza» per la nostra gustosa comprensione: «Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte» (Gen 1,5)! È l’overture della settimana della creazione, l’ingresso da dove entra tutto il resto dei giorni belli e buoni in cui Dio plasma l’intero universo.
Ma tant’è: il destino di questo primo giorno è essere frettolosamente attraversato per arrivare, pensiamo noi, a qualcosa di più evidente. Come lo sono il sole e la luna, le erbe, gli animali e, naturalmente, noi «umanoidi». Che ci sia un giorno e una notte, che subentrano l’una all’altro e viceversa, scade a ovvietà, non ci si fa più nemmeno caso. Le evidenze scientifiche ci rassicurano inoltre, a differenza dei nostri antichi padri, che ciò continuerà a succedere regolarmente, e non dipende dal capriccio del sole o della luna, più o meno divinizzate proprio per questa ancestrale paura.
Ma questa volta, questa breve parola mi commuove persino: anche il giorno e la notte sono creature di Dio, anche di questo primo giorno della creazione egli ha esclamato soddisfatto: «cosa buona»!
Ma è fantastico! Che ci sia una notte ad arginare il giorno, e che ci sia un giorno a liberare la notte dai suoi incubi, è progetto di Dio per noi. Anzi, sembra proprio che sia dall’alternarsi quotidiano di giorno e notte che dipende il resto della vita.
La notte è il nostro limite quotidiano, lì dove il nostro correre, affaccendarci, fare e disfare, reputarci persone importanti e possibilmente molto razionali, inesorabilmente s’infrange. Potessimo vederci, raggomitolati, in posizione fetale, a pancia in su o in giù, mezzi nudi, con il pigiamino o la camicia da notte addosso, mentre russiamo o facciamo continue smorfie strambe, potremmo ridere spassionatamente di noi stessi!
A ogni notte, puntuale, arriva il momento di accettare di essere fragili: siamo stanchi, abbiamo sonno, riusciamo a leggere giusto un paio di pagine di Tex Willer prima che la vista ci si annebbi. Di fronte alla notte dobbiamo arrenderci, prima o poi. La notte è il tempo dell’impotenza, dove non abbiamo più nulla sotto controllo. In noi si risvegliano forze sconosciute: sogniamo, a volte incubi, e comunque non a comando. Sperimentiamo ogni volta che siamo anche «quelli della notte», e non solo quelli del giorno. Ogni volta che ci addormentiamo ci esercitiamo a fare un atto di fiducia: nella vita, che non ci abbandonerà mentre saremo incoscienti, nelle persone che vivono con noi, che veglieranno su di noi. In Dio, nelle cui mani andiamo a cercare rifugio.
Significativamente, nella spiritualità cristiana la notte è da sempre immagine, e piccolo laboratorio giornaliero, della morte. Se il giorno ci caratterizziamo dalla postura eretta, in piedi, di notte appunto ci corichiamo, ci stendiamo in orizzontale. Così, nella preghiera di compieta, l’ultima del giorno, ogni sera frati e suore, monaci e sacerdoti, ma anche tanti laici pregano: «Signore, nelle tue mani affido il mio spirito», frase che ricordiamo bene da chi, dove e quando fu pronunciata. Per concludere con il Nunc dimittis dell’anziano Simeone: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace». Per questo Paolo ribadisce: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26), invito che papa Francesco ripete spesso ai coniugi.
Ma la notte è anche risvegliarci al nuovo giorno, riposati, rinfrancati, rimotivati. E magari ha pure portato consiglio. Se è morte, allora è anche risurrezione. Davvero Dio ci educa ogni giorno mandandoci a letto!