Elogio del senza fissa dimora
Anche questa volta è sold out: ogni posto tra i banchi è bel che occupato, e c’è gente anche in piedi. Non c’è funerale che la dia buca. Ma perché?
Perché magari non mettiamo mai piede in chiesa, ma non ci perdiamo un funerale neanche morti? Solo per scaramanzia? Sì, anche per questo. È affetto per il defunto o i suoi familiari? Penso proprio di sì. Ma tutto ciò ancora non mi rende ragione dell’entità del fenomeno, come direbbero i sociologi.
Mi ritrovo a scrutare discretamente i nostri volti, e mi sembra che ci sia anche altro. Mi sembra che non veniamo in chiesa solo per il defunto. Lo facciamo un po’ più egoisticamente per noi stessi. Veniamo, senza vergogna!, a compiangere il nostro limite. Lo scoglio dove va rumorosamente a infrangersi la nostra onnipotenza. Nel nostro piccolo facciamo un’esperienza anticipata di sconfitta. Ci esercitiamo a quello che inevitabilmente succederà anche a ognuno di noi. Solo per il fatto che siamo vivi, non ci fossero altri più seri motivi.
Talvolta il senso di sconfitta è ancora più cocente, come in questo caso. Il morto è un ragazzo di 22 anni: una vita che sembra una via crucis di appuntamenti mancati, occasioni perse, una raccolta dove non manca neppure un errore. Muore da barbone, senza fissa dimora come si dice per attenuare il colpo. Solo come un cane, l’autorità giudiziaria ci mette un po’ di giorni per dargli un nome e risalire ai suoi parenti. Certo, qualche attenuante ce l’ha pure lui: scovato in un orfanotrofio di un Paese dell’Europa dell’est, da bambino viene adottato da una coppia italiana. Che gli vuol bene, ma certe vite distrutte paiono avere anticorpi anche per questo. E allora non è più colpa di uno piuttosto che di un altro, anche se oggi, qui, i sensi di colpa si tagliano a fette spesse.
Arrischiare un «in fin dei conti se l’è cercato», in parte vero pure questo, non ci consola più di tanto. Perché questo povero ragazzo è morto senza possedere sulla terra che quanto aveva venendo al mondo. E di fronte a tanta disparità tra lui e noi, un dubbio mi attraversa la mente: ma se la giustizia è uguale per tutti, allora non dovrebbe esserlo anche l’ingiustizia? Perché invece con qualcuno quest’ultima si accanisce senza apparente ragione? Dio, che garantisce lui per un filo d’erba, s’è poi scordato di qualcuno tra di noi?
Devo provare a rimettere in ordine le emozioni. E come lo sfiato improvviso di un geyser, dirompente e bruciante, la parola di Dio dirada per un attimo le nebbie: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58). Gesù stesso si definisce «senza fissa dimora»! Non ha casa, per mangiare ha bisogno che qualcuno lo inviti, per dormire approfitta del «dormitorio» di amici. Anche da morto ha dovuto accontentarsi del sepolcro di qualcun altro. Gli amici che hanno provato a stargli dietro lo hanno capito da subito, che non avrebbero avuto più casa quaggiù sulla terra (ma cento volte tanto, secondo la sua promessa, lassù in cielo). Così Francesco d’Assisi e Antonio di Padova hanno vissuto la loro vita da «pellegrini e forestieri» (Regola bollata 6). Insomma, per strada.
A questo punto, che la parola cimitero significhi letteralmente «dormitorio», «luogo di riposo», mi sembra il giusto esito finale per questo giovane. Che senza nemmeno bisogno di saperlo, con la sua vita disordinata ci rammenta la promessa di Gesù: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”?» (Gv 14,2). Rimane solo un po’ d’amaro in bocca: quanti altri dovranno morire in maniera così assurda per rammentarcelo?!