«Good Kill», la guerra in poltrona
Good kill significa «bel colpo!». Non siamo al poligono però. Ma in guerra. Una guerra contro i talebani dell’Afghanistan. Una guerra strana, combattuta in assenza, da lontano, seduti comodamente davanti ai monitor di una play station, dove si guidano droni, che bombardano dall’alto, invisibili come fantasmi e imprevedibili come il destino.
I militari sono reclutati anche tra gli esperti di video-giochi e sono addestrati in tutta fretta, con qualche facile sermone sull’onore, la bandiera e lo spirito di corpo. Poi vengono alloggiati come in ufficio, timbrano il cartellino, manovrano joystick, eseguono ordini, videoregistrano l’attacco («impatto tra dieci secondi!»), registrano gli effetti, misurano i danni prodotti e contano, purtroppo, anche i civili sacrificati. La sera tornano a casa, salutano affettuosamente moglie e pargoli, preparano barbecue con gli amici, si godono qualche intrattenimento nei casinò sfavillanti della vicina Las Vegas.
Attorno, il deserto. Quello del Nevada. Ma anche quello di una società assente, che relega tra infinite dune sabbiose gli operai del massacro, quelli che devono fare il lavoro sporco. Senza che i benpensanti siano turbati. Senza che le agenzie culturali siano morse dagli scrupoli. Il drone garantisce la correttezza politica di risparmiare giovani americani. E la Cia chiede sempre di più, persino di violare l’antica pietà militare, che soccorre i feriti gravi e non li bombarda una seconda volta.
Il regista neozelandese Andrew Niccol ci invita nel grottesco scenario di un conflitto senz’anima, di bombe intelligenti, di ignari nemici. I corpi sembrano al sicuro, non si lordano di terra e di sangue, non si scottano di polvere da sparo, non sentono urla, non fiutano tracce, non emettono grida di richiamo, non guardano negli occhi il nemico. Eppure le reclute stanno male: nausea, insonnia, debolezza, depressione, aggressività, attacchi di panico. La famiglia non riesce ad aiutarli. Non ci riesce nemmeno l’alcol e la volgarità. È un mestiere tremendo, che dissocia l’intelligenza dagli affetti, il calcolo dai sentimenti, l’obiettivo materiale (sganciare la bomba) dal significato umano (difendere i propri figli). Qualcuno sbotta: «Mi manca la paura». «Mi sento un codardo». «Non ne posso più – confessa il pilota protagonista –. Voglio tornare a volare, voglio sentire il vuoto d’aria, guardare l’orizzonte, sfidare il cielo». Ma non c’è più nessun cielo: solo mappe, navigatori, zoom, raggi ultravioletti. E non c’è più nemmeno Dio. Quando c’è guerra, Dio tace. In questa guerra, Dio se n’è volato via.
I soldati, che hanno ancora un’etica, si domandano se, con questa carneficina, non stiano creando più terroristi di quanti ne uccidono. E se è una guerra giusta. E se non si rischia di diventare tutti terroristi. Anche noi, che andiamo al cinema, con Good Kill, siamo seduti su un drone. I nostri occhi coincidono con la telecamera che vola a 3 Km dal suolo, e che spia ogni cosa, curiosa o sadica, dubbiosa o benevola. Sembriamo al riparo. Ma le emozioni ci feriscono. La presunzione ci contagia. La nostra retina cerca uno spiraglio di pace.
Good Kill, regia di Andrew Niccol, con Ethan Hawke, Zoë Kravitz, January Jones, Jake Abel, Usa 2014