Il cammino dei pastori
Si intrecciano lontanissimi ricordi scolastici e una contemporaneità ostinata. «Settembre, andiamo. È tempo di migrare» ti rimane in una memoria adolescenziale. E crea un immaginario. I pastori, poesia dannunziana della raccolta Alcyone, è stata letta e imparata a memoria da generazioni di alunni di una scuola antica. Il suo primo verso che può essere interpretato anche come un’altra prova dei cambiamenti climatici: oggi le greggi di pecore e le mandrie di vacche lasciano i pascoli delle montagne tra metà ottobre e novembre. Ad autunno inoltrato.
In queste settimane negli Appennini centrali e in alcune vallate alpine, mezzo milione tra capre, pecore e mucche stanno scendendo dagli stazzi estivi per raggiungere le praterie dove passeranno i mesi dell’inverno. Spesso seguono antichi cammini, tracciati dai secoli dai pastori. La transumanza «non è una pratica reliquia», spiegano a Slow Food, è una zootecnia ostinata e ben viva. È la ricerca di pascoli ricchi, dalle erbe fresche. La necessità di «un’eterna primavera», scrivono gli antropologi.
La transumanza è pratica diffusa al Sud. Si scende dalle montagne abruzzesi e molisane. In Basilicata, mandrie di vacche Podoliche si stanno dirigendo verso le piane pugliesi. In Alto Adige, in Val Senales, quasi quattromila pecore, sono già arrivate nei pascoli attorno ai paesi di Maso Corto o di Vernago. Certo, un vecchio pastore rimarrebbe stupito nell’osservare che, oggi, pattuglie di turisti seguono gli animali nel loro viaggio, ma non è folclore: la transumanza è una delle tecniche più efficaci di utilizzo dei pascoli stagionali, capace di mantenere in vita una cultura pastorale. La modernità novecentesca non l’ha cancellata.
Transumanza è parola dalle origini latine: trans e humus, «attraversare» e «terra». Tra il XVI e XVII secolo erano quattro milioni le pecore che scendevano dall’Abruzzo al tavoliere pugliese. La primavera successiva risaliranno, seguendo il cammino inverso. Il destino degli uomini delle montagne, pastori transumanti, era di star lontani da casa per otto mesi all’anno. I cammini non cambiavano mai, rotte consolidate. Da tempi antichissimi il passaggio di greggi e mandrie aveva disegnato e costruito una fitta rete di tratturi e modellato un paesaggio rurale. Le diramazioni secondarie, i tratturelli e i bracci, erano infiniti. Più che strade verdi, erano dei «fiumi d’erba».
Ancora D’Annunzio: «E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente». Erano veri e propri pascoli, le misure di queste vie era stabilite da leggi: erano larghe 111,6 metri, che corrispondevano ad antiche misure borboniche, i 60 passi napoletani del Regno delle Due Sicilie. Le pecore e le capre potevano camminare e brucare l’erba. I tratturi attraversavano le campagne tracciando percorsi per 3100 chilometri. Occupavano 21 mila ettari. Si andava a piedi da L’Aquila a Foggia, 243 chilometri. Da Castel di Sangro a Lucera, 211 chilometri. Da Frosolone al Gargano.
Lungo questi percorsi sorgevano ovili, ripari, luoghi di sosta, pietre confinarie, qualche taverna, a volte una locanda, chiese rurali, tabernacoli di fronte ai quali inginocchiarsi. Oggi in Molise questo reticolo è ancora a tratti visibile, altrove è quasi del tutto scomparso. Negli anni del fascismo si privilegiò l’agricoltura dei seminativi: la larghezza dei tratturi fu dimezzata per decreto. Gli antropologi sostengono che, nelle varie regioni, oggi siano ancora in funzione dal 2% al 14% della superficie dei tratturi ottocenteschi. Negli anni ’70 del secolo scorso, i tratturi cominciarono a essere tutelati, a essere considerati, in diverse regioni italiane, un «bene comune». Nel 2019, le pratiche di transumanza nel Mediterraneo e nelle Alpi sono riconosciute, dall’Unesco, come Patrimonio Immateriale dell’Umanità.
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