Il dovere dell'agnello
Nell’entroterra sardo nasce un agnello, innocente e dolcissimo, ma il travaglio è stato duro e la pecora, che fissava il cielo col muso sofferente, muore di parto. Il pastore decreta che il piccolo avrà poco da vivere, perché un agnello non mangia senza la mamma. Ma Anita (interpretata magnificamente da Nora Stassi), la nipote del pastore, si oppone: porta l’agnello in casa al caldo, lo nutre con un biberon, lo adotta. L’agnello vivrà. Anita ha 17 anni e una vitalità esplosiva. Un fiore tatuato sulla tempia. Un piercing sullo zigomo. Lunghi capelli tinti di rosso acceso. Anita sente il ritmo della vita, suona la batteria e arde di passione per la sua terra, sulla quale grava purtroppo un insediamento militare, difeso da filo spinato e dalle armi dell’aviazione.
«Ci stanno ammazzando uno a uno» commenta Anita a denti stretti, in una scena del film L’agnello. Lo dice con rabbia, contro l’inquinamento bellico, il sibilo degli aerei, la povertà del suolo sassoso, la fatica della sopravvivenza, la grave leucemia del padre Jacopo. Quest’ultimo cerca invano un donatore di midollo osseo compatibile, mentre si sottopone a un altro ciclo di chemioterapia. Anche Jacopo è «offeso» dalla natura. La madre di Anita non c’è. Le altre donne tacciono, bloccate in una remissività sterile. Anita, invece, testimonia con tenacia e con ironia che il femminile ha i suoi diritti: il diritto di sapere, di decidere, di accudire, di fecondare. Anche il diritto di ridere, di scherzare («Se muori mi offendo e non ti parlo più» dice al padre), di scambiarsi i vestiti più belli, di giocare coi mestoli della cucina, come fa la cuginetta.
Rancori familiari, brutte storie di droga e carcere, un maschilismo amaro e muto hanno congelato la comunicazione tra Jacopo, suo fratello Gaetano (che si rifiuta di fare il test per la compatibilità ematica in ospedale) e il loro vecchio padre. Ma Anita, che chiama il genitore «Jacopo» e non «papà», non ci sta. Non può tollerare l’ignavia, il diniego, l’egoismo. Vuole un mondo bello come il mare di Sardegna. Vuole un cielo intenso come l’azzurro che sovrasta le montagne scure, le povere case e gli ovili primitivi.
Debitori di cura
Per Anita c’è un dovere solidaristico di aiutare un malato, anche correndo qualche rischio. Non viviamo mai su un’isola affettiva. Siamo da sempre debitori di una cura gradita ricevuta senza merito. E viene il tempo in cui la nostra lana va tosata e offerta a chi ne ha bisogno. Le pecore lo sanno, comprendono, consentono. Gli uomini esibiscono, invece, un egoismo bellicoso, un’illusoria autosufficienza, una rocciosa pretesa di guadagno. La loro lingua è dura, rara, scabra, incomprensibile come un dialetto arcaico. Occorre il grido impertinente di un’adolescente spregiudicata per riportare tutti agli obblighi sociali elementari: ospitalità, ascolto, condivisione. Anita morde come morde un agnello affamato, come un bambino morde il polso del padre per farci il segno dell’orologio (un segno che allude alle ore che scorrono inesorabili). Morde come un’orfana di madre che non ha mai perso l’appetito. Morde come morde la battuta gioviale di chi ti conosce: «Vero infermiera che mio papà è un bell’uomo? Ti piace vero?».
Diretto da Mario Piredda, il film L’agnello (Italia/Francia 2019) documenta il tessuto antropologico di una società in via di estinzione, coi riti e i tabù di una religione secolare, coi capri espiatori e le angosce sociali di una collettività in pericolo. E noi spettatori, come agnelli fragili e disorientati davanti a visioni meravigliate o dolenti, elaboriamo le memorie che ci hanno messo al mondo e facciamo il parto di pensieri nuovi, domandandoci fino a dove arriverebbe la nostra prossimità e a chi daremmo il nostro sangue. Anche noi abbiamo doveri, come gli agnelli, i bambini, i santi e i dannati. Il cinema è il tempo del giudizio e della redenzione. Anita si prende cura di noi, della malattia, del risentimento, della solitudine. Prova a farci ridere, anche quando sale la paura che nessuno ci ridoni la vita che fugge, mentre il viso impallidisce, smunto e corroso dal vento di una malattia reale o immaginata sugli schermi.
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