Identità in frantumi
Il cinema mette in scena con spavento e pietà i sintomi precoci che annunciano la demenza: amnesie, deconcentrazione, disorientamento spazio-temporale, instabilità psico-fisica, cambiamenti d’umore, difficoltà linguistiche, deficit di riconoscimento, disattenzioni e distrazioni pericolose, insonnia e stanchezza, fino ad allucinazioni e deliri. Dopo Still Alice di Richard Glatzer e Wash Westmoreland (2014), Elizabeth Chomko, la brillante sceneggiatrice e regista di What they had («Quello che avevano»), ci invita a demedicalizzare il problema. L’Alzheimer non è solo una malattia neurologica da affrontare con competenza tecnico-specialistica. È una modalità inautentica e dolorosa di vivere la propria esistenza. A volte la persona sofferente preserva a lungo il senso della propria identità e reagisce alle prime amnesie (per eventi recenti) con indifferenza e diniego, oppure con un’angoscia catastrofica. L’edificio del mondo sembra crollarle addosso. Altre volte lo stile comportamentale si fa attonito, ossessivo, buffo, disinibito, aggressivo.
Ruth, la protagonista del film, beve in chiesa l’acqua santa, si fa tre volte il segno della croce, mostra il dito medio a un antipatico vicino di sedia durante la Messa, chiama il marito «il mio fidanzato» e i figli adulti «i miei bambini». Non è solo una perdita di dati mentali o uno strappo nei meccanismi del ragionamento. È la sperimentazione di un nuovo stile di sopravvivenza. È l’invenzione di un vocabolario affettivo che possa attenuare un drammatico senso d’estraneità. Antiche memorie si fanno urgenti. I defunti bussano alla mente nei momenti più strani. Nei volti comuni il malato percepisce presenze misteriose e in soggetti sconosciuti (come un medico o un infermiere) egli identifica persone note. Il malato è la persona di prima, ma ha pensieri, progetti e ricordi che non sono mai stati suoi a quel modo. Pare che egli voglia ritrarsi da novità inutili e portare a compimento sogni infantili o decisioni pregresse lasciate a metà. I familiari, preoccupati, provano sentimenti di colpa per l’incapacità di decifrare gli indizi tormentosi lasciati dal loro caro e di capire quali visioni dolorose lo paralizzano o eccitano.
Qualcosa si è rotto
Nel film What they had Ruth Ertz è una dirigente sanitaria in pensione, sposata da quarant’anni con Bert, veterano militare e cattolico strettamente praticante. Ruth esce inaspettatamente di casa, sotto una notturna tormenta di neve, mal vestita, in una gelida Chicago illuminata per il Natale. Si è persa, certamente. Ma le tracce non sono casuali: si è recata, come spinta da un vento furioso, nel luogo in cui ella crede che lavori ancora suo padre. Quella memoria imperiosa cancella gli altri ricordi e un affetto irrefrenabile relativizza gli altri desideri. «Ruth è sempre stata una svitata» dice il marito, sicuro che la situazione sia sotto controllo. Ma il figlio Nick (un barista stanco e premuroso, dalla lingua tagliente) avverte invece la minaccia e chiede l’aiuto della sorella, l’affettuosa ma indecisa Bridget (che raggiunge i suoi dalla California, portando con sé la figlia Emma), perché venga finalmente scelta una buona casa di cura per la mamma. Bert rifiuta ogni idea di ricovero. La moglie deve vivere con lui fino alla fine. L’hanno promesso: «Finché morte non ci separi»; per lui il matrimonio è un dono e un compito da svolgere ogni giorno con devozione.
Bert, che ha già avuto un infarto, è un uomo testardo, che trasmette ai figli il seguente messaggio: la malattia della mamma riguarda tutti noi. Ciascuno faccia i conti con la sua smemoratezza, coi dilemmi irrisolti, con la debolezza mascherata, con l’ipocrisia consapevole, con le ostentate sicurezze, che paralizzano. «Non è tutto rose e fiori nella vita». Non si può delegare in blocco a un camice bianco la gestione del dolore d’esistere in condizioni di fragilità. Sì, pensa ancora Bert, qualcosa nella mamma si è rotto, come uno specchio caduto, e noi ora non siamo sempre sicuri di vedere il nostro volto riflesso nel suo sguardo. Ma è sempre lei, la nostra «mamma». Dietro i sintomi, che sembrano privi di significato, si è instaurato nella malata un nuovo stile comunicativo e un ritmo vitale dissonante. Ruth stessa si accorge, sia pure a tratti, di essere come un’aliena in balìa del caso e di capricciose inclinazioni. Ruth è impacciata, ma è ancora in grado di instaurare momenti di affettuosa, divertente intimità con i suoi familiari più stretti.
Non basta la medicina. Occorre un’etica della demenza per affrontare il carattere misterioso della memoria, che ha interrogato da secoli la filosofia. Come è possibile che sia presente alla mia coscienza qualcosa che non esiste più nel mondo «reale»? Che cosa sono i ricordi? Oggetti nella stanza della mente? Appunti che leggo o trascuro? Oppure sono proprio i ricordi i fili che mi muovono come un burattino? Che cos’è la demenza? La risposta non può essere offerta solo a un livello biologico. Noi siamo persone, non meccanismi più o meno funzionanti. Il cinema ci aiuta a comprendere quello che non si può spiegare. Io non ho una memoria, io sono i miei ricordi, sono la speranza di un futuro liberato in grado di richiamare al presente ciò che sembrava perduto. La demenza, sul piano esistenziale, è l’orribile scivolare nell’oblio, è uno svuotarsi del sé e un riempirsi di incubi. È l’urlo silenzioso e impotente di chi è assediato da mondi sconosciuti, è il faticoso lavoro con cui, grazie all’aiuto di chi ci assiste, tentiamo di costruire una casa su un terreno accidentato, selvatico, straniero.
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