Non c’è mai «niente da fare»
Quando per un malato si dice che «non c’è più niente da fare», c’è in realtà ancora molto, moltissimo da fare. Ed è perciò che questa espressione non dovrebbe mai essere usata. Scopo della medicina non è infatti solo guarire i pazienti dalle malattie, ma anche lenirne le sofferenze, accompagnandoli fino alla fine, in un processo speculare a quello della nascita, che è altrettanto naturale nel ciclo della vita.Troppo spesso si parla di «cure palliative», come di un ripiego rispetto ai trattamenti che hanno come obiettivo la guarigione, o almeno un aumento significativo della sopravvivenza.
Al contrario, promuoverle significa capovolgere questa prospettiva, affrontando l’ultima fase della vita con la convinzione che anche questa, pur con le sfide che pone, non si limita a togliere (forze, appetito, talvolta lucidità), ma può paradossalmente dare molto a tutti i soggetti coinvolti (l’ammalato, i suoi cari, il personale di assistenza). «Le cure palliative sono un ottimo modello di umanizzazione della medicina, perché mettono al centro dell’attenzione la dignità e il rispetto per l’individuo, fino all’ultimo istante», commenta Elisabetta Iannelli, vice presidente di Aimac, l’Associazione italiana malati di cancro. Lo si capisce pensando all’etimologia dell’aggettivo «palliativo», che deriva da «pallium», mantello, segno della premura con cui si copre e si protegge l’ammalato.
«I medici recuperano qui il rapporto con la persona umana come tale, mettendo da parte l’illusione di essere padroni della vita e della morte, ma anche abbandonando, volenti o nolenti, una certa visione meccanicista, purtroppo ancora molto diffusa in Occidente, che tende a considerare il paziente come una macchina da riparare» riflette Giorgio Tubere, già primario di Cure palliative e hospice della provincia di Imperia-Liguria. È il momento in cui, accettando i limiti insiti nella nostra esistenza terrena, si possono riscoprire valori, relazioni, affetti. È un tempo della vita che come tale merita di essere vissuto, e chi si occupa di cure palliative fa tutto il possibile perché questo si realizzi per chiunque gli sia affidato.
Un diritto sancito dalla legge
«A promuovere questo approccio in Italia sono state prima di tutto iniziative di volontariato – ricorda Iannelli –, ma nel 2010 fu la legge n. 38, tra le prime in Europa, a stabilire che le cure palliative e la terapia del dolore rappresentano un diritto inviolabile di ogni cittadino, bambini compresi, a tutela della dignità della persona». Anche se la malattia in sé non può più essere guarita, si possono infatti trattare tutti i sintomi che peggiorano la qualità di vita dell’ammalato, prima di tutto il dolore. Molti hanno paura più di questo che della malattia e della morte in sé, ma oggi abbiamo molti strumenti farmacologici che ci consentono quasi sempre di controllarlo, e che è quindi doveroso offrire al paziente. «Ciò può tradursi anche in un allungamento della sopravvivenza, perché se la persona soffre meno può mangiare di più e dormire meglio, recuperando così, almeno temporaneamente, risorse ed energie» conclude la portavoce dei pazienti.
Le cure palliative sono tuttavia molto più della sola terapia del dolore. I disturbi che condizionano la qualità di vita nelle ultime settimane possono infatti essere molti altri, e a tutti si dedica attenzione: a seconda dei casi, può prevalere la nausea, la stipsi, l’inappetenza, la difficoltà a respirare, la fatigue (una forma patologica e persistente di stanchezza e spossatezza che non passa col riposo), più in generale la perdita dell’autonomia, un processo che può essere talvolta rallentato dalla fisioterapia o dalla logopedia. Si presta cura a eventuali manifestazioni psichiche (per esempio la depressione) e all’impatto psicologico della situazione sul diretto interessato e su chi gli sta intorno. Le cure palliative, infatti, non accompagnano solo il malato, ma tutta la sua famiglia.
Come a casa
«Per garantire tutto questo, la legge prevede reti locali che assicurino la continuità nel percorso di cura, tramite l’integrazione tra ospedale, casa e strutture residenziali accoglienti e familiari dette hospice, dove il personale è specializzato a garantire tanto al malato quanto alla sua famiglia un sostegno medico, psicologico e spirituale, che consenta a tutti di vivere le ultime fasi della malattia con dignità e nel modo meno doloroso possibile» spiega Arianna Cozzolino, palliativista dell’ospedale Niguarda di Milano, da cui dipende la residenza «Il Tulipano». Si tratta di una struttura immersa in un grande giardino, dove, tra le altre cose, ci sono iniziative di pet therapy e altre legate all’arte e alla musica, che aiutano l’ospite giorno per giorno a sentirsi ancora vivo, con piccoli obiettivi quotidiani. Non si è lì per aspettare la morte, ma per vivere pienamente, per quanto possibile, il tempo che è dato. In hospice, il malato che non trae più vantaggio da terapie specifiche nei confronti della sua malattia (non necessariamente di tipo oncologico) può usufruire di un’assistenza sanitaria continua in un ambiente confortevole e familiare, personalizzato con oggetti personali che facciano sentire «a casa», dove i familiari possono stare col paziente senza limiti di orario, cucinare e dormire con lui o lei.
Assistenza disomogenea sul territorio
Anche se dal 2017 le cure palliative sono incluse nei cosiddetti «Livelli essenziali di assistenza» che tutte le regioni dovrebbero fornire ai cittadini, un’indagine condotta dall’Agenzia Nazionale per i servizi regionali (Agenas) in collaborazione con il ministero della Salute, mostra che le reti previste dalla legge per gli adulti sono presenti in 19 Regioni e province autonome, mentre per l’età pediatrica ne esistono solo in 13. In particolare, il documento ha individuato sul territorio nazionale 300 hospice per adulti e solo 7 pediatrici, la cui mappa, disomogenea dunque sul territorio, si può vedere nel documento rintracciabile sul sito dell’Agenzia. Secondo una recente ricerca commissionata al Cergas Bocconi, è più di mezzo milione ogni anno il numero di persone adulte che avrebbero necessità di cure palliative, ma solo il 23% in Italia le ottiene, contro il 64% della Germania e il 78% del Regno unito. Se si parla di minorenni, poi, la situazione è drammatica: su oltre 35 mila bambini e ragazzi che in Italia ne avrebbero bisogno, solo il 5% riesce a riceverle.
«Le diseguaglianze, in questo caso, non hanno un tipico gradiente da Nord a Sud, ma sono a macchia di leopardo, con esperienze eccellenti in Lombardia come in Puglia, fianco a fianco con aree in cui, nella stessa regione, non è invece disponibile nessun servizio – spiega Gino Gobber, presidente della Società italiana di cure palliative –. A livello nazionale, occorre un deciso cambio di passo. Un emendamento all’ultima legge di bilancio prevede addirittura che entro il 2028 bisognerà intercettare il 90% del bisogno a livello di cure domiciliari e hospice, ma anche in ospedale e nelle strutture residenziali per anziani. È una sfida impegnativa, ma l’esperienza positiva di tante realtà mostra che si può fare, in un’ottica in cui tutti hanno da trarre benefici: prima di tutto i pazienti e le loro famiglie, ma anche i bilanci delle regioni, dal momento che l’investimento iniziale per mettere a punto le reti con personale specializzato può produrre una riduzione dei costi dovuti a ricoveri inutili in ospedale: il 20% delle risorse del servizio sanitario vanno infatti oggi all’1% della popolazione nel suo ultimo anno di vita».
Il «dove» conta
I dati precedenti alla pandemia presentati al Parlamento nel 2019 e relativi al 2017 mostravano che, in quell’anno, l’assistenza domiciliare aveva portato sollievo a oltre 40 mila famiglie, con un trend in netta crescita, ma ancora del tutto insufficiente. Una goccia nel mare dei bisogni reali, quindi, soprattutto alla luce dell’auspicato ampliamento dell’assistenza a malattie diverse da quelle oncologiche, per esempio gravi condizioni neurologiche come la sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Sempre nel 2017, solo il 40% dei pazienti circa moriva nel suo letto e, tra questi, troppi erano, e sono, rimandati a casa (o in hospice) dall’ospedale solo negli ultimi giorni, rinforzando l’idea che le cure palliative rappresentino solo un modo per lenire la sofferenza terminale.
Una visione più moderna, invece, prevede che siano intraprese in una fase più precoce, quando ancora la fine è lontana, e simultanee ai trattamenti, quando ancora c’è una risposta. Anche in questa fase della malattia, infatti, è importante difendere la qualità di vita, oltre che la durata della sopravvivenza. Si comincia inoltre a instaurare un rapporto che diventerà sempre più prezioso quando le cose cominceranno a peggiorare. In tal modo anche il passaggio all’assistenza domiciliare o al ricovero in hospice sarà più facile, meno traumatico e percepito come l’ingresso in una diversa fase della malattia e della vita, non come una condanna.
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