Ricordando il «Gere»
Alla destra del bancone del Bar Sport, tanti anni fa, c’era una bacheca tappezzata di fotografie. La maggior parte di queste istantanee era in bianco e nero. Tutte memorie paesane che rappresentavano eventi sportivi, a cui avevano partecipato i «campioni» casorezzesi. Le foto del «Pier» con la maglia bianco-verde del Gruppo Ciclistico Casorezzo e quelle del grande «Zanassi», attorniato dai suo corridori. Dell’«Eugenio» vittorioso nel trofeo Pennati, con arrivo in via Inveruno. Del «Natalino», del «Galli», del «Mulo», del «Corona». Sotto il ritratto di una persona apparentemente sconosciuta, potevi trovare la fotografia della formazione della squadra calcistica dell’AC Casorezzo. Le foto del Club Marscida, mentre alzavano verso il cielo stellato il trofeo della squadra prima classificata al torneo. E poi tanti volti paesani, quasi tutti pieni di allegria, che il «Gere» appendeva con cura alla bacheca.
Dal «Geremia» non si andava solamente per bersi un caffè o per il «bianchino» di mezza mattinata. Da bambino mi sentivo grande quando varcavo la soglia d’ingresso del Bar Sport, per andare a giocare la schedina che papà aveva premurosamente compilato. Era sempre il «Geremia» ad appiccicare sopra la schedina, dopo averla inumidita passandola sulla spugnetta imbevuta d’acqua, la fascetta autenticatrice della Sisal. Il Bar Sport non era, e non è tuttora, solamente un bar. Il locale del «Gere» è il ritrovo per antonomasia di tutti i casorezzesi. È la «casa» della socialità. È il luogo dove si parla di calcio ad alta voce, dove si discute di ogni cosa, dove il tempo della provincia scorre lentamente e le lancette dell’orologio hanno un ritmo diverso rispetto a quelle della vicina Milano.
Tutti gli abitanti di Casorezzo, almeno una volta, hanno messo piede in questo bar gestito dal «Gere». Per molti è stato una seconda famiglia. Il «Biseta», quando finiva di lavorare alla Zucchi, non andava mai direttamente a casa, la sosta dal «Gere» era una tappa fissa. A volte solo per un caffè, ma capitava anche che si soffermasse per aggregarsi a qualcuno per una partita a scopa. O a scala quaranta. Negli anni Settanta, un certo «Picun» quasi tutti i giorni, in tarda mattinata, si presentava dal «Gere» in pigiama e pantofole. Impassibile agli occhi degli altri clienti stazionati davanti al bancone per l’aperitivo, ordinava la colazione. Poi si accomodava a uno dei tavolini del locale in attesa di compagni di gioco, con cui condividere partite di briscola. Non era raro vederlo uscire dal bar all’ora del tramonto, sempre in pantofole e pigiama.
Il «Gere» è sempre stato il punto di riferimento della Casorezzo «Medievale» (la definiva così Piero del Giudice, un mio vecchio professore di lettere alle scuole medie), di quegli anni Settanta che abbiamo ormai dimenticato, quando l’unico collegamento col progresso avanzato della grande città era il «pullman beige» della Rimoldi che portava i pendolari a Milano la mattina presto e li riportava indietro alla sera. I lavoratori, stanchi, si precipitavano a casa, per poi, dopo cena, correre dal «Geremia». Soprattutto il mercoledì, quando si giocavano le partite di coppa.
Altri tempi. Tempi andati, di una Casorezzo che non c’è più. Di quella Casorezzo dove si parlava quasi solo il dialetto, che se non sapevi, venivi quasi escluso dai giochi. Ma mai lasciato fuori dalla porta. È di fronte alla chiesa di San Giorgio il Bar Sport, nella piazza principale del paese. L’immaginabile linea di confine che si estende fino all’ultimo gradino del sagrato ha sempre separato questi due mondi vicini fatti di sacro e di profano. Da una parte la Casorezzo di Don Nicola, dall’altra quella dei «Pepponi» nostrani, fatta più di quotidianità spiccia che di spiritualità.
In quella domenica illuminata da un pallido sole, sorprendeva vedere la serranda del Bar Sport abbassata. Faceva un certo effetto guardare lo striscione con la scritta «Ciao Gere», che qualcuno aveva affisso con cura alla saracinesca. La piazza era immersa in una cupa atmosfera. Cesare Pavese diceva che «Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Da Casorezzo ce ne siamo andati un po’ tutti, abbiamo viaggiato. Alcuni di noi sono andati lontano, alla scoperta del mondo. Poi, ad un certo punto della nostra vita, siamo ritornati nel nostro Medioevo. Sapevamo che nella genuinità provinciale del nostro paese, c’era qualcuno ad aspettarci. Poi a Casorezzo qualcosa è cambiato. Un pezzo di storia è volato in cielo.
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