«Abbi cura di lui»
Non siamo mai pronti per la malattia. Ed è vero quanto dice proprio nelle prime righe il messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale del malato di quest’anno, che si celebra l’11 febbraio: «Attraverso l’esperienza della fragilità e della malattia possiamo imparare a camminare insieme secondo lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza». A pensarci bene, è esattamente quello che ha vissuto la Chiesa in questi anni, a partire dal 1992, quando è stata celebrata la prima Giornata del malato per volere di papa Giovanni Paolo II, che l’aveva indetta guardando a Lourdes e alla figura della piccola Bernadette ai piedi di Maria. Ero, allora, cappellano del C.T.O. di Bari, l’importante ospedale della città e davvero grande fu l’attesa di quell’evento, per il quale organizzammo tante cose. Nel 1992, l’intenzione di papa Giovanni Paolo II era di trasmettere al malato vicinanza e solidarietà. Col tempo, ci si è accorti che questo non era sufficiente.
Oggi, nel 2023, la Chiesa ci fa fare un passo in più, ponendo il malato al centro e chiedendo a tutti noi di camminare insieme con lui, nello stile di Dio. Il cambio di prospettiva è molto significativo, perché oggi l’ammalato è divenuto soggetto e non più solo oggetto di pastorale: la sua presenza ci stimola, come Chiesa, come famiglia umana, come società tutta a sostare accanto a lui, a fermarci con lui e a camminare con lui, nello stile sinodale di prossimità, che si trasmette come esercizio di guarigione. La compassione diventa allora occasione per riflettere sul fatto che per ciascuno di noi un cambiamento è possibile, che possiamo diventare migliori proprio ascoltando il grido di chi soffre.
Il messaggio del Papa per la Giornata di quest’anno valorizza due immagini bibliche di grande spessore, Ezechiele e il Buon Samaritano, due figure dalle quali possiamo trarre due profondi insegnamenti di amore vicendevole nelle prove. Il primo riguarda l’importanza di generare una comunità che cammina insieme, capace di non lasciarsi contagiare dalla cultura dello scarto e dell’indifferenza. Il secondo è credere che la malattia possa generare un mondo più fraterno, cambiando i valori di tutta la società. La malattia, infatti, costringe a fermarsi, a cambiare ritmi, a riconoscere che da soli non ce la passiamo fare: «La condizione degli infermi è quindi un appello che interrompe l’indifferenza e frena il passo di chi avanza come se non avesse sorelle e fratelli».
Personalmente ho sperimentato tutto questo, di recente, in due esperienze di ricovero in ospedale, in terra di Molise. Ho vissuto in prima persona il calore dell’olio versato sulle mie ferite, e ho sentito anche la gioia di avere una «locanda» che mi ha accolto e accompagnato nella sofferenza. Era una locanda calda, ben organizzata, fraterna, fatta di sguardi, di mani che sollevano, di cuore che comprende. In ospedale ciò che fa la differenza sono proprio le piccole cose che danno calore alle relazioni. Ho imparato che l’empatia è cuore attento, tono della voce, silenzio in reparto, parole vere nel dialogo diretto, fragilità riconosciuta e confortata. Questa è la compassione di cui abbiamo bisogno. Ecco perché è bello il titolo dato dal Papa alla Giornata: «Abbi cura di lui». Perché solo così la notte si fa giorno e la speranza vince la paura. Dio apre sempre una via, anche quando sembra che non ve ne siano. Alla modernità sfuggente, la malattia insegna che non vale ciò che funziona, né conta solo chi produce, perché al cuore della società ci sono i fragili e i malati.
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