La pittura alla finestra
È giorno, ma nella stanza prevale il buio. Quel poco di luce che c’è filtra da una finestra in parte oscurata con un pannello. Al balcone, una donna di spalle, in abiti neoclassici, contempla il panorama. Quale sia questo panorama, a noi spettatori del quadro Donna alla finestra di Caspar David Friedrich (1822), non è dato saperlo. Per quanto il pittore ci abbia lasciato due indizi… l’albero di una nave e un argine alberato. Ci troviamo al numero 33 di An der Elbe, a Dresda. La stanza è, in realtà, lo studio del pittore noto per i suoi paesaggi romantici. E dietro quel vestito a vita alta si cela la moglie dell’artista, Caroline Bommer, intenta a contemplare il fiume Elba che scorre proprio lì sotto. Vi chiederete come mai Friedrich abbia (temporaneamente) accantonato brughiere nebbiose e chiese in rovina per questo interno molto intimo. «Potrebbe sembrare la semplice rappresentazione di un momento di vita quotidiana – risponde Emanuela Pulvirenti, autrice de Il mondo alla finestra. La storia dell’arte raccontata dalla cornice di una finestra (BUR) – e invece ha un significato molto più ampio: è la contemplazione del mondo, il desiderio di infinito e di libertà, di partecipazione con il creato (Friedrich era molto religioso, non a caso i suoi dipinti sono stati definiti “dialoghi con Dio”)».
Nessuno di questi aspetti sarebbe, però, verosimile senza la finestra: l’elemento che «separa due mondi» e, allo stesso tempo, li unisce. «Il punto d’incontro tra lo spazio umano e la realtà esterna, tra cultura e natura, tra la misura e l’infinito. Un catalizzatore di storie e un attivatore dell’immaginazione». Ne è convinta Pulvirenti, architetta e docente di storia dell’arte, che ha iniziato a collezionare immagini di finestre nei dipinti tanti anni fa. Oggi il suo «tesoro» ammonta a oltre duemila pezzi che vanno dal XV secolo ai giorni nostri. «La comparsa delle finestre nei dipinti, a partire dal Quattrocento, è stata una vera rivoluzione – conferma la fondatrice del blog Didatticarte –. Da un lato ha permesso agli artisti di amplificare enormemente lo spazio pittorico, già reso profondo dall’invenzione della prospettiva, dall’altro ha consentito di introdurre nuovi significati simbolici attraverso il paesaggio raffigurato all’esterno. Questo è possibile perché la finestra è un elemento contemporaneamente visivo e concettuale. È uno strumento che consente di creare un’illuminazione realistica e un fulcro attorno a cui si anima la vita familiare. Che sia sullo sfondo di un ambiente o unica protagonista del quadro, frontale o laterale, intera o parziale, la finestra apre la scena ad altre interpretazioni e diventa di volta in volta metafora del potere, del divino, della libertà, della seduzione, del dialogo, della solitudine».
Ecco spiegato il motivo per cui la vetrata dipinta da Friedrich nel 1822 è in parte coperta. «Quando l’artista aveva affittato l’atelier, circa vent’anni prima, la finestra non aveva gli scuretti che si vedono in questo dipinto – aggiunge Pulvirenti –. Li aggiunse Friedrich, per non essere distratto dalla vista del mondo esterno, quando dipingeva. Secondo lui, infatti, “l’artista non dovrebbe dipingere solo ciò che vede davanti a sé, ma anche ciò che vede dentro di sé”. L’arte nasce quindi da uno stato di grazia, da un impulso interiore che la vista del paesaggio esterno non doveva turbare». Un impulso che invece la finestra veicola ed esalta da sempre.
Questione di inquadratura
«Principio, dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto». È il 1435 quando un poco più che trentenne Leon Battista Alberti, fresco degli insegnamenti di Filippo Brunelleschi che aveva codificato la prospettiva nel 1413, espone, nel De pictura, la sua tecnica per riprodurre il reale. Per la prima volta nella storia dell’arte viene citata la «finestra aperta» quale cornice virtuale dentro cui costruire l’immagine. Un modello di visione del mondo che di lì in avanti non sarà più dimenticato. «L’immagine della finestra, nel Rinascimento, nasce come metafora geometrica e come suggerimento pratico per l’artista che deve costruire la sua composizione (la sua storia) sul quadrato del piano pittorico – scrive Giovanni Iovane, che nel 2012 ha curato la mostra “Una finestra sul mondo. Da Dürer a Mondrian e oltre” a Lugano –. Si tratta di definire la cornice dell’inquadratura».
Un esperto in questo campo è Antonello da Messina che, nel suo San Girolamo nello studio (1475), costruisce la scena dentro una grande cornice architettonica e ne arricchisce lo sfondo con finestre, bifore e un portico. Attraverso le vetrate scorgiamo in lontananza un paesaggio collinare, per certi versi simile a quello che Leonardo da Vinci tratteggia alle spalle di Gesù nel Cenacolo (1495-’97). Se in questo dipinto murale le tre finestre occupano una posizione centrale, nel Cristo alla colonna di Donato Bramante (1487-’90) la finestra sul cui davanzale è posata una pisside, si sposta a lato ed esce in parte dal quadro. Lo stesso accade nel Ritratto di vecchio con un bambino (1490) di Domenico Ghirlandaio. Escamotage prospettico e simbolico, la finestra «tagliata» compare anche nell’Autoritratto di Albrecht Dürer datato 1498. Non è l’unica finestra dipinta in questo olio su tavola. Il maestro tedesco, infatti, era solito inserire dei piccoli telai negli occhi delle persone che ritraeva (in realtà lo fece anche con il Leprotto del 1502). Un’abitudine che, per alcuni studiosi, simboleggia la redenzione. Ma soprattutto un «marchio di fabbrica» che, nei secoli successivi e fino al ’900, molti artisti, specie nel Nord Europa, adotteranno al posto del tradizionale «puntino bianco» dentro la pupilla.
Che sia riflessa negli occhi o in uno specchio, come nel caso del Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434) di Jan van Eyck, la finestra è veicolo principale della luce. Pensiamo alla Vocazione di san Matteo (1599-1600), in cui Caravaggio penetra l’oscurità della stanza facendo scendere da un’ipotetica apertura in alto, esterna alla scena, un fascio dorato che colpisce una finestra cieca e accarezza i volti di uomini e fanciulli seduti attorno a un tavolino. Attraverso la finestra, la luce irradia anche la Lattaia (1660) di Jan Vermeer, colta con la brocca tra le mani in un momento di quotidianità. Dal calore di una cucina, attraverso la finestra passiamo al freddo di una cella. Un’ampia stanza con volte a botte fa da sfondo a un quadro di Joseph Wright of Derby del 1787-’90. Se Il prigioniero di questa tela siede abbattuto davanti a una grata, avido di sole e libertà, L’artista nella sua cella a Saint-Lazare (1794) di Hubert Robert riceve dalla luce un impulso creativo (infatti è ritratto alla scrivania). Quando parliamo di speranza e redenzione, non c’è inferriata che tenga.
Luce a parte, dalla finestra a volte entrano innamorati, come il Romeo di Francesco Hayez (L’ultimo bacio di Romeo e Giulietta, 1823), ed escono anime accompagnate da angeli con lunghe ali (William Blake, La morte del buon vecchio, illustrazione per The Grave di Robert Blair, 1813). Vola fuori anche la colomba che Noè fa uscire da una finestrella dell’arca per verificare che il Diluvio Universale sia finito. A rappresentare l’episodio biblico (Gen 8,6-9), tra i tanti, è Marc Chagall che – con guazzo e oli su carta – staglia in una stipata e buia sottocoperta un rettangolo lilla (il cielo dopo la tempesta). E ci dipinge sopra la mano del patriarca nell’atto di spingere il volatile, sotto gli occhi fiduciosi di una capra, un gallo e una madre con bambino. In realtà, non è l’unica finestra in cui l’artista bielorusso di origini ebraiche si cimenta nel corso della carriera. Nel 1913 Chagall immortala un gatto con sembianze umane al davanzale, sullo sfondo della Tour Eiffel (Parigi dalla finestra). Tre anni dopo opta per un panorama più bucolico (la campagna di Vitebsk, dove si era trasferito con la famiglia) nel ritratto di moglie e figlia (Bella e Ida alla finestra). Cambiano gli scenari, ma la finestra resta un punto fermo attraverso il quale guardare (e interpretare) la realtà.
«Non sei tu la nostra geometria, / finestra, semplicissima forma / che senza sforzo circoscrivi / la nostra vita enorme?» si chiede Rainer Maria Rilke nel 1927. Il poeta ha una vera ossessione per le finestre. A loro dedica molti versi per accompagnare le opere dell’amante Baladine Klossowska, pittrice polacca, nonché madre di Balthus, altro artista col pallino delle vetrate. «Una finestra – scrive – è il veicolo perfetto per suggerire domande senza risposta, per aprire la strada a una vastità che è ricca, anche perché non sarà mai decifrata fino in fondo». Di questo avviso dev’essere stato anche Picasso che, tra il 1919 e il 1920, mentre è in Costa Azzurra con la prima moglie, la ballerina russa Olga Koklova, realizza una ventina di nature morte accomunate dalla presenza del guéridon (tavolino), della chitarra e della finestra. Un anno dopo, Juan Gris scompone a mo’ di cubista una natura morta con chitarra, spartito e bottiglia davanti a due balconi spalancati sul mare (La finestra aperta).
Forme e volumi anzitutto, ma non per Henri Matisse che – da bravo fauve – nelle sue molte interpretazioni di finestre dà la precedenza al colore puro. «Sogno un’arte equilibrata, piena di purezza e tranquillità» precisa l’autore di Finestra aperta, Collioure (1905), Finestra a Tangeri (1912) e La finestra blu (1913). Tra le avanguardie, anche il Surrealismo non è immune al fascino della finestra. René Magritte la apre dietro al dipinto (su cavalletto) di una campagna, poi tratteggia sullo sfondo la continuazione del quadro (La condizione umana, 1933). Morale: tutto è illusione, compresa l’idea che la nostra rappresentazione della realtà corrisponda al vero. Mantiene un’atmosfera sospesa e rarefatta, ma la carica di realismo Edward Hopper, quando, nel 1951, dipinge una porta-finestra aperta sopra il mare (Stanze sul mare). «Il mio scopo è stato semplicemente quello di dipingere la luce del sole sulla parete di una casa» scriverà l’artista statunitense.
C’è chi spalanca balconi e chi invece li chiude. Oltre trecento anni dopo la finestra cieca di Caravaggio di cui parlavamo all’inizio, Marcel Duchamp commissiona una french window in miniatura a un falegname, poi la oscura con pannelli di cuoio nero, da lucidare «ogni giorno, come le scarpe». Il risultato è Fresh Widow (1920), in italiano «vedova di fresco», gioco di parole che rimanda appunto alle porte finestre della tradizione francese, ma anche alle vedove della prima guerra mondiale. Il tema della finestra chiusa, già diffuso nel Rinascimento, verrà ripreso da Jeff Wall, Ellsworth Kelly e, a partire dagli anni ’70, da Christo – l’autore della passerella The Floating Piers sul Lago d’Iseo –, che coprirà con la carta da pacchi finestre e vetrine di negozi. Un gesto controcorrente? E se questa chiusura fosse, invece, un modo per aprire ancora di più alla realtà, ai suoi significati, ma anche ai desideri e al futuro? Parafrasando Fernando Pessoa: «Non basta aprire la finestra / per vedere la campagna e il fiume. / Non basta non essere ciechi / per vedere gli alberi e i fiori. (...) C’è solo una finestra chiusa / e tutto il mondo fuori; / e un sogno di ciò che potrebbe esser visto / se la finestra si aprisse, / che mai è quello che si vede / quando la finestra si apre» (Non basta aprire la finestra).
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!