Sulle orme di Giotto
«Oggi vi parlerò del grande Giotto. Lo sapete cari ragazzi perché Giotto è tanto importante nella pittura italiana? Ve lo dico io: perché ha inventato la prospettiva». Era il 1974 quando sullo schermo un’avvizzita prof di storia dell’arte, inzuppando un biscotto in un bicchierino riempito da dietro la cattedra, preannunciava ai suoi svogliati studenti l’argomento della lezione nel film Amarcord. Risate a parte, persino da questa breve scena del capolavoro di Federico Fellini emerge la grandezza di un personaggio che, con la sua arte, ha travalicato il tempo e lo spazio fino a giungere ai giorni nostri. Accantoniamo per un attimo la leggenda del pastorello che sapeva tracciare «O» perfette e quella dell’apprendista che gabbò il grande Cimabue dipingendo una mosca tanto realistica da sembrare vera. Giotto di Bondone (1267 circa – 1337) fu anzitutto un grande imprenditore dell’arte che – con la sua bottega e le sue innovazioni – portò il mestiere del pittore a un prestigio fino ad allora inimmaginabile. Non c’è da stupirsi, dunque, se sette secoli dopo il suo nome è ancora sinonimo di modernità. «Senza Giotto non c’è arte moderna» conferma Vittorio Sgarbi, ideatore della mostra «Giotto e il Novecento» allestita al Mart di Rovereto fino al 19 marzo, in collaborazione con i Musei Civici di Padova. «La sua è un’arte universale, in quanto tramite tra il divino e il terreno» aggiunge la curatrice della mostra, Alessandra Tiddia. A partire dagli affreschi nella Cappella degli Scrovegni di Padova e nella Basilica di San Francesco ad Assisi, raccontando storie comprensibili a tutti, «Giotto ha mostrato con un linguaggio semplice il divino che c’è in noi».
Da qui la straordinaria influenza che il maestro toscano ha esercitato sugli artisti venuti dopo di lui. In particolare su quelli del XX secolo. «Giotto è un artista consacrato nella storia – continua Sgarbi –, ma fu il ’900 a intenderne l’assoluta attualità». Vedere per credere le duecento opere che in questi mesi ricoprono le pareti del Mart nel suo ventesimo compleanno (la sede roveretana, su progetto di Mario Botta, fu inaugurata nel 2002). Quadri, sculture e installazioni di artisti italiani e stranieri, ispirati più o meno consapevolmente da Giotto e dalla sua capacità di «mostrare l’invisibile». Alcuni di questi allievi posteri hanno «incontrato» il pittore visitando i luoghi da lui affrescati, altri si sono accontentati di ammirarne le opere in foto o in cartolina. Pensiamo a Fortunato Depero, che conservava in archivio una foto Alinari del Giudizio Universale agli Scrovegni. Per non parlare di Josef Albers, che firmò una dichiarazione d’amore alla moglie su una cartolina della Fuga in Egitto (altro affresco nella stessa Cappella padovana). «Nessuno è invasivo e pervasivo come Giotto» conferma ancora Vittorio Sgarbi. E questa mostra al Mart ne è l’ennesima prova.
Immersi nel blu
Che abbiate compiuto 20 anni o 80, di sicuro nella vostra vita avrete ammirato almeno una volta un cielo blu cobalto. Uno di quei cieli tersi e intensi che spuntano fuori dopo un temporale. Con meno probabilità, però, vi sarete imbattuti in un firmamento blu oltremare tempestato di stelle a otto punte. Per vederlo non servono escursioni notturne né viaggi all’estero, ma basta entrare nella Cappella degli Scrovegni di Padova. Oppure raggiungere Rovereto e varcare la soglia del Mart. La mostra «Giotto e il ’900» si apre, in effetti, con un’installazione immersiva che riproduce la volta della Cappella padovana e tutte le sue pitture murali. Un modo per traghettare da subito il visitatore nell’universo giottesco fatto di colore puro, volumi geometrici e personaggi incastonati nello spazio come gemme preziose. Una volta rotto il ghiaccio col maestro toscano, la mostra entra nel vivo con un’ampia selezione di opere italiane del XX secolo.
Tra i pittori del Novecento che seguirono le orme di Giotto troviamo al primo posto Carlo Carrà. Autore di una monografia (1924, sulla rivista «Valori plastici») e di una Parlata su Giotto (1916, sulle pagine de «La Voce»), Carrà «dipinge in una dimensione originaria», come quella di una scuola primaria. In fondo, spiega Vittorio Sgarbi, «l’arte contemporanea indica la necessità di ripartire da zero. Quello zero per Carrà è Giotto». Non è la prima volta che l’arte di Carrà viene associata all’infanzia. Già nel 1916, in una lettera indirizzata all’artista, lo scrittore Giovanni Papini racconta che, davanti a La carrozzella (1916), due signore attribuirono l’olio su tela alla figlia di Carrà, Viola. Nessuna offesa per il pittore piemontese, anzi. «Per me l’arte è una continua ricerca ed è una continua crisi spirituale che scopre il suo equilibrio» risponderà in una lettera successiva.
Un passo in avanti in questa ricerca Carrà lo compie qualche anno dopo con Le figlie di Loth (1919). Concepito a partire dall’episodio biblico riportato nella Genesi (13,10), questa tela testimonia il ritorno all’ordine e il passaggio dalla metafisica al realismo magico. Sullo sfondo di un panorama semi desertico, due donne statuarie – una in piedi e l’altra in ginocchio – occupano le estremità del quadro. Immerse nel rigore geometrico, le loro mani sembrano richiamarsi, conferendo vita al racconto, sotto lo sguardo di un esile cane. La scena, tanto simile a una annunciazione, rappresenta in realtà le due figlie di Loth (nipote di Abramo) che, sfuggite alla distruzione di Sodoma, ubriacarono il proprio padre e giacquero con lui per assicurargli una progenie. Dal pavimento piastrellato secondo le leggi della prospettiva fino ai panneggi delle vesti e ai colori elementari, il quadro rimanda a una dimensione arcaica eppure moderna, in cui misticismo e trascendenza si fondono con la natura. «Mi sento un Giotto dei miei tempi» confessa Carrà a Giovanni Papini nel 1915. La lezione del pittore trecentesco, del resto, è troppo preziosa per essere dimenticata. «In Giotto io ammiro l’ossatura cubistica dei suoi dipinti, ch’io prendo come insiemi plastici» scrive Carrà in Parlata su Giotto.
L’attenzione ai volumi e alle forme giottesche accompagna l’opera di un altro grande artista del Novecento: a Mario Sironi va il merito di aver interpretato il senso più monumentale e assoluto del maestro toscano. Come quando dipinge la statua di un Condottiero a cavallo (1934-’35) che svetta sopra una folla, incorniciata in un gioco di architetture che si sovrappongono e incastrano come in un puzzle. Da una statua a un’altra, ci spostiamo in Piazza d’Italia dove ci attende il Pomeriggio d’Arianna (1972). Anche l’autore di quest’opera, Giorgio De Chirico, ha un debito verso Giotto. Ad averlo ispirato è soprattutto la gestione dello spazio negli affreschi padovani e fiorentini. Spazio che getta le basi per la nascita – molti secoli dopo – della pittura metafisica. «In Giotto il senso architettonico raggiunge alti spazi metafisici – scrive De Chirico nel 1920 (Il senso architettonico nella pittura antica, in “Valori plastici”) –. Tutte le aperture (porte, arcate, finestre) che accompagnano le sue figure lasciano presentire il mistero cosmico… L’opera d’arte non è più l’episodio asciutto, la scena limitata negli atti delle persone figurate, ma è tutto il dramma cosmico e vitale che avviluppa gli uomini e li costringe entro le sue spirali; ove passato e futuro si confondono».
La mostra al Mart prosegue sulle orme di Giotto attraverso le opere di Arturo Martini, Gino Severini, Massimo Campigli, Giorgio Morandi, Lucio Fontana e tanti altri. Poi compie un salto fuori dall’Italia per indagare le tracce di Giotto nei lavori di Henri Matisse (Icaro, tavola VIII del libro Jazz, 1947) e Ives Klein (Ex voto dedicato a Santa Rita da Cascia, 1961; Monochrome bleu sans titre, 1956; Anthropométrie sans titre, 1960; Globe terrestre bleu, 1957). Quest’ultimo, pensando alla volta affrescata degli Scrovegni, brevetta addirittura un blu quale mezzo per rendere visibile l’invisibile: l’IKB International Klein Blue, a base di pigmento blu oltremare, alcol, resine e acetato etilico.
La ricerca dell’universale attraverso il colore è una priorità anche per Mark Rothko, presente in mostra con Senza titolo (Rosso), 1968. Accostando campiture di rosso e nero, il pittore statunitense di origine ebraico-lettone, che nel 1950 visita l’Italia restandone incantato, realizza una composizione finalizzata a trasmettere stati spirituali universali. In altre parole, un mindscape, un panorama mentale, che allude alla tragicità della condizione umana. «L’incontro diretto con le opere di Giotto contribuisce indubbiamente a spingere Rothko verso il linguaggio universale dell’astrazione – scrive Gražina Subelytė nel catalogo della mostra roveretana –. In effetti, nei suoi successivi dipinti a campiture di colore puramente astratti prevalgono verità spirituali parallele. Rothko intensifica l’uso del colore affinché lo spettatore possa viverlo nella maniera più potente possibile, e con un senso di immediatezza, offrendo un’esperienza emotiva autentica». Lo stesso artista non fa mistero delle sue intenzioni… «Sono interessato solo ad esprimere emozioni umane fondamentali – la tragedia, l’estasi, l’estinzione e via di seguito –. (…) Quanti piangono davanti ai miei quadri vivono la stessa esperienza religiosa che ho vissuto io quando li ho dipinti» (Rothko, Scritti sull’arte: 1934-1969).
Dal colore sulla tela passiamo, infine, a quello digitale, l’ultima opera in mostra – Tycho Blue, 1969, di James Turell – sfrutta la tecnica della video proiezione per trasformare quattro banali pareti bianche in una stanza blu – ennesimo omaggio a Giotto – che richiama la spiritualità e l’astrazione. «Con Turrell si oltrepassa il limite fisico della tela per immergersi nella luce come vibrazione cromatica» scrive Alessandra Tiddia a margine della mostra. Complice la tecnologia, «James Turrell plasma la luce artificiale, modificando la percezione dello spazio reale». Chissà se Giotto avrebbe apprezzato. Innovatore com’era, c’è da scommettere che, di fronte alla sfida del digitale, il «più grande narratore della linea» (parole di Roger Fry) che «rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno» (Cennino Cennini) non si sarebbe tirato indietro.
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