27 Dicembre 2022

Tutto per un figlio

Tunisia, estate del 2011. Un ragazzino in viaggio con i genitori viene ferito gravemente durante una sparatoria. Ha inizio una tragica corsa contro il tempo per salvarlo, nel film «Un figlio» di Mehdi M. Barsaoui.
Tutto per un figlio

Una spensierata vacanza di famiglia nel Sud della Tunisia si trasforma in una tragedia. Siamo a Tataouine, città di origine berbera, in una calda estate del 2011. Ci sono segnali di cambiamento politico in senso liberale, mentre fioriscono le cosiddette «primavere arabe». Il padre, Fares (Sami Bouajila), è dirigente d’azienda e anche la moglie Meriem (Najla ben Abdallah) ha da poco ricevuto un incarico direttivo. Aziz (Youssef Khemiri) è il loro unico figlio di 10 anni. È un gruppo familiare aperto, vitale, di idee progressiste, come i loro amici. Improvvisamente la loro automobile viene colpita da proiettili sparati lungo la strada deserta. Forse l’imboscata di un gruppo libico in rivolta (Gheddafi sarà spodestato e ucciso nell’ottobre dello stesso anno) o una sparatoria tra islamisti e militari. Fares fa marcia indietro, ma è troppo tardi. Viene ferito gravemente il figlio.

Il seguito è una sequela di eventi negativi. Un primo intervento chirurgico addominale. Un’emorragia. L’impossibilità clinica di trasferimento all’ospedale di Tunisi. La necessità di un trapianto parziale di fegato. La lunga lista di attesa dei riceventi e la scarsità di organi disponibili. Che fare? A chi chiedere un organo per il trapianto da vivente di una sezione del fegato? È lecito utilizzare cadaveri di militi ignoti? È moralmente corretto che il donatore sia estraneo alla famiglia del ricevente? Pur non essendoci chador né burka, la religione pone vincoli antichi che la legge attuale non chiarisce né supera.

Senza svelare troppo la trama di Un figlio (Tunisia/Francia/Libano/Qatar 2019), anticipiamo che ci sono anche altre questioni controverse nel film, questioni relative ai diritti-doveri dei coniugi, questioni che esigeranno un approfondimento etico da parte dello spettatore: che cosa vuol dire oggi essere genitore? Quali obblighi di fedeltà e cura ne derivano? Il regista Mehdi Barsaoui (formatosi al Dams di Bologna) ci sbatte dentro una realtà durissima, fatta di vulnerabilità fisica e di conflittualità psicologica oltre che politico-sociale. Tutto farebbero un padre e una madre per il loro piccolo, ma la buona intenzione deve farsi largo tra verità taciute e aggressività sopite. Il sangue, di cui si sono macchiati i vestiti dei genitori durante il trasporto del ferito in pronto soccorso, viene messo in risonanza dal regista col sangue di altri bambini, stritolati dal dramma di una guerra disumana. Al solito, sono i piccoli, i poveri, i fragili a subire il ricatto di profittatori, falsi amici, commercianti ipocriti, sanitari corrotti.

Lo stile della fotografia (una videocamera palmare che insegue gli attori, ne ingrandisce i volti e sta loro addosso isolandoli) ci mostra prospettive inquiete, frantumate in cornici interne. Vetri scheggiati, pareti opache e riverberi accecanti offuscano la visione. La madre, di una sensuale bellezza mediterranea, ma ammutolita dal dolore e dal senso di colpa, lenisce l’esplosiva, rabbiosa, sorda reazione del marito, il quale è abituato a prendere rapide decisioni aziendali, ma è ora congelato in un’impotenza spettrale. Viene poi rappresentato il contesto clinico.

La prognosi infausta di Aziz esige una comunicazione delicata e una sofferta condivisione decisionale. Un pediatra paziente e comprensivo dà all’entourage familiare informazioni e sostegno, trasformando il proprio studio in una stanza per colloqui riservati e confessioni amare. Ma attorno a loro grava l’obsolescenza di una sanità pubblica costretta a ristrettezze economiche e strutturali, affollata di bisognosi disperati e priva dei mezzi per svolgere una fattiva alleanza terapeutica. Ciniche leggi di mercato premono sui corpi, alimentano l’industria delle armi, demarcano gli arricchiti dai reietti, espongono i minori ad abusi, corrodono la deontologia professionale, distorcono risorse dalle strutture sanitarie, bloccano gli slanci di carità in una mortifera, illogica burocrazia.

Quando il cinema parla di trapianti allude sempre al trasferimento d’immagini e di pensieri emozionati che lo schermo opera sullo spettatore, accendendo la creatività narrativa di quest’ultimo, il quale ha sete di una visione mai vista, di un sogno a occhi aperti, di icone in movimento che disegnino un mondo liberato dal male. Occorre solo che tra autore e audience si instauri una solidarietà, una «compatibilità» di tessuti spirituali, un credito speso verso chi ci regala una trama, svela segreti, denuncia iniquità, mostra i conflitti tra una morale religiosa tradizionalista e maschilista, da un lato, e le spinte emancipative che fermentano nel Nord Africa, dall’altro. Il film di Barsaoui dà da pensare anche a noi, illusi, spesso, che il solo progresso scientifico garantisca l’integrità delle istituzioni, educhi la saggezza dei decisori, aiuti quanti vogliono un cambiamento etico ispirato alla solidarietà tra pari e difendono i diritti delle future generazioni. 

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Data di aggiornamento: 27 Dicembre 2022
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