L’arte libera

Sei settimane di studio e cinque laboratori realizzati da artisti insieme a dottorandi e detenuti di alcuni istituti penitenziari di Palermo e Firenze: è il progetto «GAP - Graffiti Art in Prison».
06 Dicembre 2022 | di

Palermo, XVII secolo. Un uomo rinchiuso in una cella delle Carceri dello Steri, allora sede del Tribunale dell’Inquisizione, incide sul muro una scritta: «Innocens noli te culpare» («Innocente, non ti incolpare»). Quattrocento anni dopo, quella frase, reinterpretata in «Innocens… or guilty?» («Innocente… o colpevole?»), viene impressa a caldo su una t-shirt da un ospite dell’Istituto penale per minorenni Malaspina. Che cosa c’entrano i graffiti scoperti nel 1906 da Giuseppe Pitrè (di cui scrisse anche Leonardo Sciascia in Morte dell’Inquisitore nel 1964) con il laboratorio che lo scorso ottobre Elisa Giardina Papa ha allestito insieme a otto giovani reclusi?

La risposta sta nell’acronimo GAP, Graffiti Art in Prison, il progetto triennale ideato da Gabriella Cianciolo e Gemma La Sita con il coordinamento artistico di Laura Barreca, che dal 2020 mette in relazione i disegni murali di uno dei più importanti siti culturali siciliani con le espressioni artistiche nelle carceri di oggi. Realizzato dal Simua-Sistema Museale d’Ateneo dell’Università degli Studi di Palermo, in partenariato con il Kunsthistorische Institut in Florenz Max-Planck Institut, il Dems dell’Università degli Studi di Palermo, l’Università di Saragozza e l’Accademia di Arte e Design Abadir di Catania, GAP combina ricerca scientifica, attività didattico-artistiche e impegno sociale attraverso «collaborazioni orizzontali».

«L’aspetto socialmente più rilevante del progetto GAP sta nell’aver coinvolto artisti, dottorandi e detenuti in incontri e attività finalizzate a creare un nuovo modello educativo di inclusione sociale attraverso l’arte» spiega Laura Barreca. Il programma si svolge in parallelo. Da un lato, sei settimane di studio intensivo distribuite negli atenei di Palermo, Colonia, Saragozza e Firenze con esperti da tutto il mondo, dall’altro cinque laboratori ospitati in quattro carceri (Ucciardone, Pagliarelli, Malaspina a Palermo e Solliciano a Firenze). «Il linguaggio universale dell’arte ci permette di costruire un dialogo tra voci e realtà molto diverse – continua Barreca –. Del resto, Graffiti Art in Prison nasce proprio dalla volontà di attuare la funzione della “terza missione” dell’università: agire in contesti sociali di fragilità “invisibili”». Contesti dove la speranza è merce rara.

«Oggi più che mai la pena non può ridursi a mera punizione – aggiunge Barreca –. Ma va intesa piuttosto come forma di rieducazione e reinserimento sociale». Ben vengano, dunque, attività come i laboratori GAP che mettono tutti i partecipanti sullo stesso piano. «Inizialmente i detenuti ascoltavano, cercavano di capire. Noi li abbiamo “ingaggiati” senza pretendere di insegnare nulla. E loro ci hanno ringraziato perché, per qualche ora, li abbiamo distratti dai loro pensieri» ricorda ancora la coordinatrice artistica. «Hanno accolto questa iniziativa come un’ancora di salvezza – le fa eco Chiara Agnello, regista e sceneggiatrice che sul GAP ha realizzato un docu-film in uscita nel 2023, una mostra e un catalogo –. Uno dei detenuti ci ha detto: “Voi siete le nostre “farfalle nel cuore”, perché ogni volta che venite ci fate un regalo grandissimo”».

Questione di colore

Nel mondo della moda sarà pure un evergreen (basti pensare ai tailleur anni ’50 e ai pantaloni da caccia in vigogna), ma in certi contesti il grigio può risultare davvero un colore cupo e soffocante. È il caso degli spazi aperti dell’Ucciardone, la casa di reclusione palermitana dove qualche mese fa l’artista Matilde Cassani ha portato a termine l’Operazione grigi cortili. Tre incontri distribuiti in una settimana per questo laboratorio che ha coinvolto un gruppo di dottorandi provenienti da tutto il mondo e alcuni detenuti della sezione «protetti». Rulli alla mano, i partecipanti si sono divisi in squadre e hanno dipinto il cortile, trasformandolo in una specie di campo da calcio dai colori tenui, come quelli di un deserto. «Sulle pareti, poi, abbiamo disegnato scudetti coloratissimi – ricorda l’artista –. A opera conclusa, riguardando il proprio operato, i carcerati sono rimasti abbagliati. Non erano più abituati al colore, perché in carcere tutto è sbiadito e manca una visione “da lontano”, manca un orizzonte».

Ma perché abbellire il cortile e non la cella, dove i detenuti trascorrono gran parte del tempo? «Il cortile per un carcerato è il momento d’aria quotidiano, uno spazio “altro”, come quando esci di casa e fai una passeggiata in città» spiega ancora Matilde Cassani. Pazienza se al posto delle vetrine costeggi alti muri, se i passanti sono i tuoi vicini di cella e se puoi vedere il mare solo in fotografia. L’arte, unita all’immaginazione, mette le ali e conduce molto più lontano di qualsiasi aereo. A maggior ragione quando è condivisa. Ne sa qualcosa Stefania Galegati che, per il suo workshop «La scuola dei saperi» alla Casa circondariale Pagliarelli di Palermo ha coinvolto dodici detenute e altrettanti dottorandi in un ciclo di dieci incontri.

All’origine del laboratorio, la convinzione che chiunque ha qualcosa da insegnare e da imparare. «Quando ci si insegna a vicenda, lavorando insieme si crea un’intimità» spiega l’artista nel documentario che Sky Arte ha dedicato al progetto GAP. Poco importa se la materia in oggetto è la danza, l’uncinetto o l’architettura. «Da un dottorando abbiamo imparato il disegno tecnico, mentre una delle carcerate ci ha insegnato a cucinare la torta in padella (perché in carcere non c’è il forno) – continua Stefania Galegati –. Un’altra cosa che ho imparato dagli incontri? A non chiedermi più che cosa avranno fatto le ospiti del penitenziario per essere lì». Perché solo liberandosi dai pregiudizi del passato si può guardare con fiducia e speranza al futuro.

Il carcere è per definizione un luogo chiuso, inaccessibile. Alle persone come pure alle videocamere. Per questo, raccontare con la sua Sony i laboratori GAP con i detenuti non è stato semplice per Chiara Agnello. «La maggiore difficoltà è stata determinata da tutti i vincoli e i controlli all’interno degli istituti di detenzione» racconta la video maker, che ha iniziato le riprese del suo docufilm lo scorso aprile. Una fatica durata quasi nove mesi che è stata ampiamente ripagata dai risultati. «Sembra impossibile, eppure grazie all’arte e alla collaborazione, tra i partecipanti del progetto si sono creati legami forti. Di fiducia, di sorellanza. Penso a quella signora in lacrime, mentre raccontava di quei nipoti che non vede da anni, perché non vuole che vadano in carcere a trovarla. Penso anche a Benedetto, uno dei detenuti dell’Ucciardone, e alla sua teoria sul tempo dentro e fuori dal carcere. Diceva che noi continuiamo a riempire la vita di cose per non sentire il tempo che passa. Ma dentro a una cella, invece, devi imparare a gestire quel tempo. E devi diventargli amico. È come vivere in un’altra dimensione». Un mondo parallelo che ora, grazie all’arte e al progetto GAP, sembra un po’ più vicino.

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Data di aggiornamento: 06 Dicembre 2022
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