Il «gioco» dei nomi
Primo giorno di scuola, in una prima classe di un istituto primario. La maestra sale in cattedra e – registro alla mano – inizia l’appello. Man mano che legge i nomi, cerca di memorizzarli associandoli ai volti. Le mani si levano tra i banchi. Due Francesco, un Tommaso, due Ginevra, tre Sofia. E poi Marina, Pietro, Denis. La prof tentenna un po’ sulla pronuncia di Akanke e continua con Benedetta. Conosce quest’ultima bambina di vista. Ha sentito molte chiacchiere sui suoi genitori, che l’hanno attesa per ben otto anni. Da qui, forse, il nome che allude a una benedizione divina. La lista prosegue con Dante e Artù. Chissà, si chiede la maestra, se papà e mamma conoscono la Divina Commedia e la saga dei Cavalieri della Tavola Rotonda. In ogni caso – riflette – sempre meglio attingere alla letteratura piuttosto che a qualche soap opera (il riferimento ai Ridge, Brooke e compagnia bella che spopolavano negli anni ’90 è d’obbligo). Perché in un nome c’è molto più di qualche lettera e di un bel suono. Ogni nome racchiude al suo interno storie, radici, culture e tradizioni. Ogni nome parla di noi. Un po’ come una vetrina di ciò che siamo, di ciò che eravamo e di ciò che saremo. Così, se è vero che l’uomo per natura continua a mutare, perché i nomi di persona dovrebbero fare eccezione?
La storia parla chiaro: sono molte nell’arco dei secoli le variazioni nei nomi dei neonati. Anche di recente, se confrontiamo la graduatoria Istat dei dieci nomi più diffusi nel 2020 tra i bambini con quella del 2000, le differenze non mancano. In pole position oltre vent’anni fa c’erano Andrea e Alessia, Francesco e Chiara, Matteo e Martina. Oggi, invece, a raccogliere più consensi sono Leonardo e Sofia, Francesco e Giulia, Alessandro e Aurora. Perdono terreno (ed escono dalla top ten) Simone, Giuseppe, Sara, Anna, Francesca e Federica. «Queste variazioni – avverte Elena Papa, referente del Centro studi e ricerche di Onomastica dell’Università di Torino – sono in realtà meno polarizzate se relazionate ai nomi che risultavano ai primi ranghi nel Novecento (e al calo delle nascite che sta investendo l’Italia). Certo, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a uno “sfarfallamento” di nomi che salgono e scendono dai primi posti, ma si tratta di variazioni effimere, perché lo scarto tra un nome e l’altro è di poche unità (se Leonardo nel 2020 è stato scelto per 8.604 bimbi, il secondo e il terzo posto – Francesco e Alessandro – si distaccano di poco con 5.422 e 5.009). Nei ranghi alti restano comunque nomi tradizionali e “moderati”, legati alla cultura e alla storia del nostro Paese, mentre nelle posizioni più basse della lista osserviamo una grandissima variabilità dovuta ai gusti, alle mode e, in minima parte, al fenomeno dell’immigrazione». Anche se, aggiunge la professoressa, «tra i primi nomi scelti dagli stranieri a Torino c’è proprio Maria, lo stesso nome tradizionale che in passato spopolava tra le famiglie italiane e che oggi, invece, consideriamo “fuori moda”».
A puntare sui «classici», insomma, non si sbaglia mai, perché prima o dopo tornano sempre alla ribalta. Non ce ne vorrà il colosso dell’arredamento Ikea, il quale, nel 2021, in conseguenza del baby boom che, secondo alcune fonti, ha investito i Paesi Scandinavi, ha pubblicato online un catalogo di nomi tratti dagli oggetti più venduti del marchio. «Trovare un nome per tuo figlio può essere sia difficile sia divertente – si legge sul sito norvegese –. Noi di Ikea diamo nomi ai prodotti da oltre 70 anni. Quindi, che tu sia completamente bloccato o semplicemente desideri ispirazione, qui troverai oltre 800 nomi di maschi e femmine». Resta da capire se associare il proprio figlio a una lampada (Ada), a una sedia (Chris), a uno specchio (Frida) o a un armadio (Pax) sia un’opzione desiderabile. Anche se, potrebbe obiettare la Giulietta di Shakespeare (Romeo e Giulietta): «Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo».
Corsi e ricorsi
C’era una volta Teresa. «Era un nome molto diffuso nella prima metà del ’900, specie in Piemonte – precisa Elena Papa –. Un nome comune e popolare che, intorno agli anni ’60, non trovò apprezzamento tra la nuova borghesia. Nel giro di poco tempo, il nome subì un calo vistoso, salvo poi ricomparire qualche decennio dopo, riscoperto – ironia della sorte – dalla stessa borghesia come nome di prestigio sulla scia di reminiscenze letterarie (il personaggio di Teresa, amata da Jacopo Ortis, ispirata all’attrice Teresa Pichler, moglie di Vincenzo Monti) e storiche (la regina Maria Teresa d’Asburgo). Ci sono nomi “vecchi” che passano da generazione a generazione e tornano a essere rari, ricercati e, dunque, preziosi». È la teoria dei corsi e ricorsi. Tutto torna, prima o poi. Anche i nomi. Compreso quello del nostro Santo di Padova… «Antonio compare tra i nomi con maggiore incidenza, seppure con alti e bassi, lungo tutto il ’900 – specifica la professoressa Papa –. Da una soglia massima di 18 mila attestazioni nel secondo dopoguerra, nel 1950 compare tra i nomi più gettonati, ma già dalla fine degli anni ’70 inizia a cedere terreno (nel 1976 sono 10 mila gli Antonio nati in Italia, mentre nel 1994 sono solo 3 mila) a favore di nomi come Andrea, Simone, Alessandro (che probabilmente deve il suo successo alla duplice matrice storica e religiosa)».
In parallelo, intorno agli anni ’60 – complice il bisogno di rompere gli schemi – si sviluppano riattualizzazioni più o meno esotiche. «Antonio e Antonia virano in Anthony, con o senza h, Antoni, Antoine, Antoinette, fino ad Antonella che, dopo i successi degli anni ’60, oggi è tornato in secondo piano». Per non parlare di un nome tipico dell’Italia meridionale come Carmela che si trasforma in Carmen, o Giuseppina che cede il passo a Giusy oppure Matteo che assume la forma più ricercata di Mattia. «Si afferma la libertà di scelta, la voglia di novità. E fanno il loro ingresso in Italia anche i nomi dello spettacolo: uno su tutti, Samanta, con o senza h, con una o due a. Perché molto spesso il desiderio di esotismo non è sostenuto dalla conoscenza delle lingue straniere». L’inizio del XXI secolo segna qualche cambiamento: «Nei primi ranghi maschili si mantengono nomi tradizionali, pur con l’affermazione di nomi di matrice germanica come Edoardo e Riccardo. I nomi femminili invece si aprono più facilmente alle novità».
Consapevolezza e ricerca
Ma che cosa c’è davvero dietro un nome? E quanta consapevolezza ognuno di noi ha del proprio? La «scelta di un nome – scrive Gianfranco Folena in Antroponimia letteraria, RIOn (Rivista Italiana di Onomastica), 1996 – è l’unico atto linguistico al quale sono chiamati – talora a spese dei destinatari – tutti coloro che si continuano nei figli: è il segno primario della tradizione, del rapporto fra la persona e il mondo». In gergo tecnico, insomma, potremmo dire che i nomi sono parent oriented, perché di solito il genitore, quando sceglie il nome del figlio, proietta su di esso i propri modelli e propone formule augurali, col risultato di generare talvolta imbarazzi e scollamenti in chi porta quel nome. «Durante le lezioni mi capita di chiedere agli studenti come è stato scelto il loro nome – racconta Elena Papa –. “Piaceva ai nostri genitori” rispondono il più delle volte. È la prova che dietro un nome oggi non c’è per forza una motivazione precisa, tanto meno un significato riconosciuto».
Come scrive Carla Marcato, in Nomi di persona, nomi di luogo. Introduzione all’onomastica italiana (Il Mulino), «il nome ha la funzione di un’etichetta, serve a identificare un individuo in sé, assolutamente, rispetto a tutti gli altri individui che formano la collettività. A parte alcuni nomi del tipo Bruno, Azzurra, Stella, Selvaggia, Grazia, Natale, Pasquale, Pio, che consentono un confronto con lessemi del vocabolario della lingua che si parla, solitamente oggi il nome non ha un significato linguistico. Per nomi come Andrea o Carlo o Maria è necessario consultare un dizionario etimologico per ritrovare un significato linguistico. In una prospettiva storica, nel momento in cui è sorto, il nome poteva essere significativo ed esprimere, almeno in parte, il significato linguistico del nome comune o aggettivo, o di altre espressioni, da cui è derivato: Amato, Fortunato, Fedele, Primo, Secondo, Graziadio, Romeo, Rosario e molti altri».
Linguistica a parte, tra mode, globalizzazione e voglia di cambiamento, sono lontani i tempi in cui il nome del bebè ricalcava quello degli antenati. Quando – complice una fortissima religiosità popolare – veniva scelto dal parroco in base al santo del giorno di nascita o al patrono della famiglia. Nel libro Antenati e santi: l’imposizione del nome nella storia europea (Einaudi, 2001) Michael Mitterauer riporta la testimonianza di una contadina austriaca nata nel 1910 che ricorda i nomi dei fratelli, tutti attinti da santi protettori, e in particolare quello del fratello Florian. Un nome scelto ad hoc, perché – ricorda la donna – secondo suo padre in ogni famiglia ci doveva essere un Florian che protegge dagli incendi (il riferimento è a san Floriano, santo di epoca romana che, secondo la tradizione, salvò dalle fiamme una casa col solo aiuto di una brocca d’acqua). Passano i secoli, ma «i nomi dei santi – aggiunge Elena Papa – rappresentano un elemento trasversale della nostra cultura», ieri come oggi.
Quando si parla di onomastica (la scienza che studia i nomi propri) è impossibile prescindere dal passato. Lo sanno bene al Centro Studi e Ricerche di Onomastica dell’Università di Torino, dove, dal 2001, si promuove la ricerca dei nomi di persona, di famiglia e di luogo, indagando i rapporti tra società, lingua e identità, sia in prospettiva storica, sia nella contemporaneità. In che modo? Attraverso la comparazione dei dati e delle fonti. Fonti come l’estratto (dai codici fiscali) dei nomi italiani nati tra il 1900 e il 1994, fornito al Centro dal Ministero delle Finanze. Fonti come i dati documentari regionali, il repertorio dei nomi dei fanciulli abbandonati e i registri parrocchiali («Non scordiamoci che era sempre la Chiesa ad amministrare i battesimi» conclude la referente del Centro, Elena Papa). Dopo secoli di «anarchia» (nel Medioevo non vigevano regole su scelta e registrazione dei nomi), fu il Concilio di Trento (1545-63) a imporre l’obbligo dei registri delle anime (con nomi e cognomi) nelle diocesi, gettando così le basi per tutte le ricerche a venire. La Chiesa provvede. E l’onomastica ringrazia.
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