Vite in parallelo
L’esperienza di maternità custodisce in sé molti significati. È una trasmissione di sangue, di nome, di lasciti, di poteri. È l’irripetibile intimità di due vite allacciate tra loro per nove mesi. È l’annuncio di una novità vitale (un bimbo è tra noi!), che impone cambiamenti al gruppo sociale, il quale è scosso da un’attesa meravigliata e, assieme, dalla paura di trasformazioni impreviste. È la percezione di voci e visioni nascoste (i sogni delle madri in gravidanza), che parlano di un passato antico, spesso colpevolmente cancellato dalla coscienza, e disegnano un futuro inedito, una speranza di riscatto, un sogno fiabesco, un desiderio di giustizia.
Seguendo il genere cinematografico del mélo (che riprende dal melodramma lirico gli impedimenti amorosi, le esasperazioni passionali, le rivalità, le illusioni e il pianto inconsolabile), Pedro Almodòvar ci regala, con Madres paralelas (Madri parallele, Spagna 2021), un film coloratissimo, dove le tinte sgargianti, contrapposte, abbaglianti, bollenti (i rossi, i gialli, i blu, i verdi) parlano di una vita sentimentale esplosiva, di una turbolenza del cuore irriducibile ai calcoli della ragione. Due donne sole prossime al parto si incontrano in un reparto di ostetricia. L’una, Janis (interpretata dall’attrice Penelope Cruz) è un’affermata fotografa quarantenne. L’altra, Ana (Milena Smit), è un’adolescente problematica, in piena ricerca d’identità. Scatta tra loro un’amicizia, una complicità al femminile, che si rafforza nell’atto di partorire, lo stesso giorno, due splendide bambine. Si ritrovano per caso, tempo dopo, e da capo si aiutano, scoprendo di avere in comune un destino imprevisto e un’attrazione misteriosa, cui resteranno fedeli, nonostante tutto.In cerca di… Janis e Ana sono contemporaneamente donne, madri, figlie, nipoti. Sono la terra, dalla quale viene la vita e dentro la quale torna chi muore.
Ci troviamo in Spagna negli anni delle proteste per i desaparecidos della guerra civile (1936-1939), partigiani uccisi e gettati in fosse comuni dai militari del generalissimo Franco che instaurerà una dittatura. Ottant’anni dopo, il ventre polveroso della Spagna partorisce, attraverso studi geo-antropologici e scavi meticolosi, le reliquie delle vittime, i resti dei militanti liquidati da frettolosi plotoni di esecuzione e nascosti senza un rito pubblico. Le donne, vedove, amiche o discendenti, avvertono lo spasmodico desiderio di contattare quei corpi, di vedere e toccare ciò che ne è rimasto. Così inizia e finisce il film di Almodòvar, con questa testarda, incoercibile, impossibile voglia di tenere tra le braccia i propri parenti. Queste donne spagnole somigliano a Maria di Magdala: piangono perché il loro caro è stato portato via e non sanno dove sia stato deposto. Chiedono, come nel Vangelo di Giovanni, di dir loro dove è stato messo, per poterlo pulire e onorare come merita. Una sequenza del film dà rappresentazione a una processione laica, che ricorda il dipinto Quarto stato di Pellizza da Volpedo (1900 circa): operai che protestano perché hanno fame, lavoratori che incedono fieri verso di noi, che guardiamo il quadro. Nel film sono soprattutto donne che vogliono sapere e venerare nella solidarietà le loro vittime.
Nella parte centrale del film Madres paralelas, che è incorniciato da immagini di protesta sociopolitica, vengono narrate le vite delle due donne, esposte al beffardo destino di un mondo medicalizzato, alla sordità di famiglie immature, alla superficialità di maschi assenti, indecisi, calcolatori, gretti, abortisti per comodo. Sono donne che cercano il loro genere sessuale, che si aiutano e consigliano negli atti di accudimento e cura, che hanno il coraggio di litigare in nome della verità della nascita (senza degenerare in un’aggressività violenta). Il loro desiderio di un figlio emerge imperioso dai corpi, si fa strada attraverso atti mancati, s’incarna in relazioni esigenti e dà voce, se riesce, a promesse di fedeltà indelebile.
Il cinema mette le nostre vite in parallelo. Siamo registi, personaggi, narratori, attori di vicende biografiche in cui giochiamo la nostre speranze, chiediamo scusa per gli errori commessi, perdoniamo i torti di chi si è pentito, denunciamo i soprusi, reclamiamo una verità onorevole. I confini della famiglia si allargano e si estendono alla società, alle memorie e attese di un popolo. Il cinema ci «genera» da capo, immergendoci in trame che potevano essere le nostre e consegnandoci a padri e madri immaginari, che ci vedono crescere. A nostra volta come spettatori inventiamo un mondo migliore, riscriviamo le scelte identitarie, adottiamo nella fiction i figli di altri, spezziamo le catene dei pregiudizi moralistici. Siamo le storie in cui crediamo.
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