Il brigadiere scultore
Un artista eremita che scolpisce la materia regalatagli dal mare. Enrico Mereu vive da oltre quarant’anni sull’isola dell’Asinara, che lo ha ammaliato con la sua faccia meno raccontata, quella profondamente idilliaca legata al mito di Ercole. I varchi inaccessibili, progettati dal più grande architetto che è la natura, non avrebbero mai permesso la fuga dei prigionieri, dagli austro-ungarici durante la Prima guerra mondiale ai moderni boss malavitosi. Da qui l’etichetta affibbiata per anni al luogo: «l’isola del diavolo», un nome che paradossalmente non la rappresenta, trattandosi, in realtà, di un vero paradiso incontaminato. All’Asinara, Enrico ha come unici vicini di casa dei branchi di cinghiali e mufloni sardi, che vagano pacifici in quella che per lui è «la madre che mi ha allevato». «Questa è un’isola dai mille volti, con un magnetismo particolare – racconta –. Bellissima, ma piena di sofferenze, specialmente per i tanti reclusi che sono morti qui. È parte di me e la mia testa ha bisogno di lei. Non riesco a starle lontano».
Mereu ha festeggiato 60 anni in solitudine sull’«Alcatraz italiana», ma il suo passato è denso di ricordi: da brigadiere degli agenti di custodia dell’ex penitenziario a scultore, poiché immergersi per tanti anni in una dimensione di totale silenzio ne ha profondamente segnato la vita di uomo e artista. Così da «freddo» secondino è diventato un osservatore empatico, «un artista ispirato da Dio», come lui stesso si definisce, capace di trasferire nelle sue sculture l’anima di una terra ancora genuina. Enrico Mereu non ama interferire con i meccanismi naturali: mantiene con l’isola un rapporto di condivisione e dialogo continui, rispettando però la capacità insita nella natura di sostenere la vita di tutte le creature. «In quasi quarant’anni non ho mai tagliato un albero, perché trovarne uno è come riabbracciare un vecchio amico – sottolinea l’artista –. Mi limito a raccogliere i legni spiaggiati, provenienti dall’isola maggiore, dalla Corsica o dalla Spagna, e mi basta uno sguardo per capire il viaggio che hanno fatto. Oltre a suonare ogni giorno la loro melodia naturale, le onde hanno il potere di far emergere molti elementi che la natura ci consegna quasi come un segno tangibile della presenza di Dio sulla Terra». L’unico e fidato collaboratore di Mereu è infatti il mare, che per primo modella i grossi ceppi consegnandoli poi all’artista che si limita a completare l’opera, facendo emergere con il suo scalpello l’immagine più profonda di Dio, già presente naturalmente all’interno degli elementi, legno o roccia che siano.
Il volto di san Francesco
«Un giorno, durante una delle mie esplorazioni, ho trovato un tronco già in parte plasmato dalle onde, che aveva acquisito la sagoma del volto del poverello di Assisi», racconta Enrico Mereu. Impossibile per l’artista distogliere lo sguardo da quel ceppo, così ha iniziato a realizzare per intero la statua di san Francesco: ne è uscito un gruppo ligneo alto tre metri con al centro il santo, circondato da trentacinque animali di varie specie. «Man mano che l’opera prendeva forma – confida l’artista –, essa mi indicava la presenza tangibile di Dio. Credo sia successo, in un certo senso, anche a san Francesco quello che ho avvertito io: man mano che procedevo, venivo arricchito interiormente dalla natura che contemplavo». A lavoro completato, lo scultore ha quindi deciso di intraprendere un pellegrinaggio ad Assisi, per donare la sua scultura alla cittadina umbra. «La mia ispirazione sboccia grazie alla presenza di Dio, che risalta in ogni angolo di quest’isola. Ciò mi ha permesso di far convivere in pace le mie due anime in conflitto, quella artistica e quella “cruda”, devastata dall’ambiente in cui lavoravo», confessa Mereu.
Il brigadiere scultore dell’Asinara nella sua casa-atelier a Cala D’Oliva perde il senso del tempo, lavorando senza tregua sui legni che acquistano rapidamente le sembianze di angeli, animali, madri e rose. «Sin da piccolo percepivo le forme contenute dentro la materia. Guardavo una pietra, dicevo quello che vedevo e non capivo perché gli altri non vedessero lo stesso. Pensavo di essere diverso, invece era semplicemente il mio sguardo sul mondo che non era uguale a quello degli altri», racconta ancora lo scultore. Di origini umili, quinto di dieci figli, Enrico comincia a realizzare le sue prime sculture da bambino, vendendole poi ai suoi insegnanti per racimolare qualche soldo. Ma il padre non condivide la sua passione per l’arte e, affascinato dall’idea dell’uniforme e dello stipendio fisso, lo fa arruolare a sua insaputa nel corpo di polizia penitenziaria. Così, nel gennaio 1980, il giovane artista sardo si trasferisce presso il carcere di Biella, ma in valigia porta con sé gli attrezzi del mestiere e, oltre a vegliare sui detenuti, organizza per loro corsi di pittura, poiché la scultura è bandita dagli istituti di reclusione per via degli strumenti utilizzati, potenzialmente pericolosi.
Il brigadiere Mereu asseconda dunque il desiderio paterno, ma chiede e ottiene ben presto il trasferimento da Biella al carcere dell’Asinara. Qui scopre che i detenuti non sono i soli reclusi, lo sono anche le guardie, costrette a turni massacranti e sottoposti a una tensione costante. Durante il suo lavoro, Enrico soffre la lontananza dalla «terraferma», è carico di rabbia per una scelta lavorativa condizionata, piange e non si vergogna delle sue lacrime. Poi trova nell’arte la forza per andare avanti, iniziando a dialogare con quella natura in cui ritrova l’immagine di Dio.
L’Asinara è per sempre
Con le sue mani, Mereu riesce a «far partorire» la materia e, quando accade, qualsiasi tensione emotiva presente in lui scompare, lasciando spazio alla voglia di seminare briciole di umanità in un luogo di redenzione. «Da poco tempo sono riuscito a disintossicarmi dai ricordi, ma per anni i fantasmi della prigione mi hanno accompagnato», racconta lo scultore. Il carcere di massima sicurezza è ormai chiuso da vent’anni e l’isola è adesso un parco nazionale. Qui Enrico Mereu raccoglie ora i frutti della sua unica passione, inebriato dai profumi aromatici della macchia mediterranea trascinati a ogni soffio di brezza. «Spesso dialogo con Dio, soprattutto quando vado alla ricerca del materiale da scolpire, trovando ogni volta un bel pezzo di legno sulla battigia», confida. Nelle ore più fresche, l’artista si arrampica su un picco roccioso e inizia a scolpire a cielo aperto, fuggendo di tanto in tanto dalle mura del suo piccolo laboratorio. «Lavorare a contatto con la natura è come essere affiancato dal Signore che veglia su di te», sottolinea.
Oggi, il suo più grande desiderio è di essere sepolto ai piedi di qualche sperone roccioso della sua Asinara, dove il vento soffia perenne. Con l’occhio attento che scruta il mare, Enrico Mereu continua a cercare instancabilmente un nuovo legno profugo, offrendo a quel ceppo ormai morente una seconda opportunità di vita. E le celle del penitenziario, dal cui spioncino lui sorvegliava un tempo i gesti dei più feroci criminali, sono ora rese piacevolmente accoglienti dalla maestria con cui ha impreziosito le pareti smorte con intarsi lignei e posto su piedistalli sculture in pietra calcarea: massima espressione di quel delicato intreccio emotivo tra Uomo e Creatore.
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