Il filo della felicità
«Allora il superiore, volgendosi ad Antonio, gli impose di annunciare ai convenuti quanto gli venisse suggerito dallo Spirito» (Assidua 8)
«La nostra personale umanità sorge, prende forma e si alimenta in un ben preciso ambiente; ci troviamo dentro, non lo scegliamo noi» scriveva don Luigi Giussani. E la nostra vita, da questo ambiente dipenderà.
Lo sperimentò bene frate Antonio da Lisbona in quella mattina di primavera del 1222, nel duomo di Forlì, quando dovette abbandonare la propria «zona di comfort» e salire – «impreparato» – sul pulpito per un sermone che nessuno voleva fare, una sorta di «piano B» per rimediare a un’assenza. Il suo superiore, senza tanti giri di parole, gli aveva fatto capire che c’era bisogno di lui e non gli era consentito obiettare né sorpresa né impreparazione: egli non era un novellino, ne aveva viste di tutti i colori per terra e per mare, sapeva latino di chiesa quanto bastava, doveva cogliere il proprio «attimo fuggente» e buttarsi.
Un po’ come quando i formatori della nostra Comunità San Francesco guidano i giovani del programma terapeutico in arrampicate su palestre di roccia o in discese di rafting, o quando si chiede di ascoltare «buona musica» a chi si è scatenato solo nel metal o, ancora, di buttar fuori pensieri ed emozioni senza aggredire o scappare.
È il classico pugno nello stomaco, l’emergere della disistima di sé e della paura del nuovo, a cui fa seguito un ripensamento più pacato, sostenuto da qualche richiesta di chiarimento (e incoraggiamento), per giungere infine alla decisione di provarci, magari in apnea. Un misto di obbedienza, di curiosità, ma anche ricezione spirituale di una sorta di «chiamata» a un percorso dentro e fuori di se stessi, che sarebbe stolto eludere.
E poi, «inaspettato», il grido liberatore: «Ce l’ho fatta, ce la posso fare, avevano ragione!». Ci riuscì alla grande il nostro Santo, che quel giorno a Forlì si laureò sommo predicatore, e ci riescono pure – nel loro piccolo – tante persone che dicono «no» per la prima volta a una dipendenza. E tutto nasce dalla decisione di aderire a un viaggio/pellegrinaggio nuovo, carico di adrenalina buona messa in circolo da una nuova conoscenza di sé, esplorando le proprie parti meno conosciute e magmatiche e tuttavia pronte a essere sorgenti di nuova vita.
Come avvenne ad Antonio, è però importante che qualcuno ci dica con l’autorevolezza di chi vuol bene: «Dai, sali su quel pulpito – il tuo pulpito –, non perdere la tua occasione, forse non ti ricapiterà più, mentre è probabile che succeda qui e ora l’evento che ti cambierà». Quel giorno il «destino» di Antonio cambiò davvero: aveva studiato, era una bella testa, sapeva la Bibbia a memoria, ma gli mancava ancora quel «sali sul pulpito!» per connettersi al proprio valore profondo.
Che ne sarebbe stato di frate Antonio senza quell’«incidente» forlivese? Magari sarebbe diventato lo stesso un grande santo, o forse sarebbe restato nella «media», o forse, chi lo sa?!, avrebbe perso la sua occasione, il suo filo di Arianna della felicità.