Il lavoro? Una vocazione
«Questo paese è di origine medievale?», chiedo al benzinaio. «Non solo questo – mi risponde –, ma quasi tutti i paesi in questa area sono stati fondati tra il X e il XV secolo». Replico: «Complimenti per la cultura storica». E lui: «Non sono mica solo un benzinaio?! Questo è il lavoro che faccio per vivere, ma poi mi occupo di storia, teatro e arte». Un dialogo quotidiano e semplice, che però mi ha portato ancora a riflettere su questioni importanti. Innanzitutto, mi ha ricordato che una persona è sempre più grande del lavoro che fa. Anche perché le dimensioni della nostra vita sono molte e, come dice l’economista e filosofo Amartya Sen, «ogni volta che una persona è ridotta a una sola identità c’è violenza». Quel signore è un benzinaio, ma anche molte altre cose. Le altre dimensioni non erano visibili a occhio nudo, perché la divisa da lavoro faceva da velo alle altre «divise» invisibili. È stato necessario parlare, e andare oltre il normale scambio merce-denaro (quante «rivelazioni» ci perdiamo ogni giorno perché arriviamo troppo distratti ai tanti piccoli appuntamenti?!).
Infine, quel signore alla pompa di benzina mi ha dato un ultimo insegnamento. Il XX secolo ci ha consegnato un’etica del lavoro dove i lavori manuali erano associati in genere alla bassa (o nulla) istruzione, e dove chi studiava non si «sporcava le mani» con essi. Un’antica eredità che rimanda all’idea arcaica che i lavori manuali erano quelli degli schiavi e dei servi. Dobbiamo presto dar vita a una nuova etica del lavoro dove le mani e il pensiero diventino alleati. Giardinieri con dottorato in filosofia, benzinai laureati in storia, infermieri umanisti e umanisti capaci di prendersi cura di anziani e bambini…: dovranno essere queste le belle professioni di domani. Ma intanto, ringrazio quel giovane benzinaio di Servigliano, che, mentre lavorava, mentre mi serviva «per vivere», mi ha fatto anche sognare un brano di un mondo diverso.
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