29 Ottobre 2021

Il primo anno

Due studenti al loro primo anno di medicina, tra insicurezze, competizioni e tanta voglia di trovare la propria strada. Sono i protagonisti de «Il primo anno», diretto da Thomas Lilti.
Il primo anno

Sono molti i serial tv dedicati alla medicina, ai medici, alle emergency room, agli specializzandi, agli infermieri e agli amministratori d’ospedale. Spesso la narrazione è frettolosa e superficiale sul piano psicologico, centrata su clamorose prestazioni diagnostiche e chirurgiche, infarcita di storie sentimentali, recitata da personaggi stereotipati e iperattivi. Il primo anno (Francia 2018, titolo originale Première année) costituisce la risposta francese ai fumettoni Usa e concentra l’attenzione all’inizio del curriculum, nel limbo nevrotico del primo anno di prova, dopo il quale avverrà uno spietato esame d’ammissione e ogni candidato dovrà scegliere tra i posti rimasti vacanti (biologia, ostetricia, odontoiatria e, appunto, medicina) oppure ritirarsi e tentare l’anno seguente. Questa è la procedura in vigore in Francia.

La rappresentazione della comunità scolastica è impietosa: più di mille studenti si fronteggiano per una selezione che durerà un intero anno e che consentirà solo a qualche centinaio di essi l’iscrizione al corso di laurea in medicina. Le vicende umane si intrecciano in forme imprevedibili e le poliedriche esperienze giovanili vengono rappresentate attraverso generi cinematografici diversi: commedia, dramma, avventura, reportage, grottesco, psico-thriller. C’è lo studente carrierista e quello oblativo; lo scrupoloso e lo spaccone, il glaciale e il piagnucoloso, quello ispirato da una vocazione inflessibile e quello che ancora cerca la propria strada tra mille tentennamenti.

Ma soprattutto vi sono etiche diverse con cui affrontare lo stress della preparazione e le difficoltà relazionali (competizione e amicizia, tranelli e sincerità, cinismo e prossimità, tensioni familiari e aggressività di gruppo). C’è chi bada essenzialmente alle conseguenze (in genere, al proprio successo al test d’ingresso) e c’è invece chi coltiva una spontanea generosità, evita di strumentalizzare il compagno e addirittura è pronto a gesti di sacrificio. Lo stile aggregativo varia dall’«uno contro tutti» a «l’unione fa la forza», da manifestazioni goliardiche scacciapensieri a una programmazione della giornata di studio così esigente da indurre in qualcuno depressione e burn out (esaurimento nervoso).

Al solito, differenti virtù morali condizionano modalità diverse di comunicazione (il solitario e il compagnone, l’asceta e il chiacchierone) e, viceversa, tratti caratteriali opposti espongono a dilemmi morali specifici: mentire per pietà o riferire freddamente una brutta notizia? Accanirsi nello studio o rispondere a esigenze come lettura, svago, frequentazioni familiari?

Tra merito e opportunità

Lo spettatore ha di fronte uno spaccato della società occidentale, colta in una competizione dura, meccanica, implacabile e controversa negli esiti. Il regista Thomas Lilti, che ha studiato medicina, guarda i personaggi con l’ammirazione che si prova verso la futura classe sanitaria francese, e con una gioiosa, nostalgica complicità per giovani allegri, creativi, impertinenti, vivaci nell’intelligenza e reattivi nelle emozioni. Il film consente così di affrontare domande attualissime sul piano politico. È la scuola che deve porsi al servizio della società, sfornando operai, tecnici e professionisti utili per qualità e numero al funzionamento del sistema? Oppure è la società che dovrebbe apprendere dal mondo scolastico, portare l’immaginazione al potere (per citare un vecchio slogan), trasformarsi sulla base dei desideri e dei diritti rivendicati da chi sogna un mondo più giusto verso i deboli, i malati in particolare?

Lo stesso mito della meritocrazia viene esposto a critiche severe. Siamo certi di offrire opportunità eque a chi manifesti una motivazione personale così preziosa come quella di lavorare nella sanità? Con quali criteri viene fatta la selezione sui grandi numeri dei candidati? Si tratta di quiz basati su discipline biologiche, fisiche, matematiche, anatomiche? Oppure si prevedono anche domande di cultura generale, di etica, di psicologia, di tecnica della comunicazione, tutte materie essenziali per stabilire una relazione empatica medico-paziente? La tesi del film è che spesso viene premiato non il più bravo, il più motivato, ma colui che si destreggia meglio nelle tecniche di selezione, chi incamera il maggior numero di nozioni, chi evita di farsi domande su se stesso e sul senso umano di una difficile professione.

Se ti obbligano a studiare una montagna di dispense (è una battuta della pellicola), lo studente efficiente si limita a domandare «per quando?», mentre chi possiede un’intelligenza critica si chiede «perché?». Ma tra un trattato di istologia, un training in laboratorio e una seduta al microscopio non c’è tempo per i «perché?». Viene presto la sera, la stanchezza, l’ossessione per l’agenda del giorno dopo. Se l’università plasma camaleonti pronti al rapido adattamento istituzionale, ma conformisti, isolati, obbedienti, ordinati, produttivi e aproblematici, è facile prevedere che la curiosità culturale sarà frustrata e che le lusinghe economico-carrieristiche avranno il sopravvento sull’autentica maturazione personale.

Uscito dal liceo, Benjamin, figlio di medico, è incerto sul suo destino, ma supera subito la prova. Il suo amico Antoine, che vive in periferia e che ha una vera vocazione per la clinica, è già stato bocciato due volte e ora, tra mille fatiche, ci prova per la terza volta. Ce la farà? Nessuno gli insegna a studiare, le aule sono superaffollate e mancano i docenti.

Il regista completa così la sua trilogia sulla medicina (dopo Ippocrate, 2014 e Un medico di campagna, 2016) e allarga la sua indagine su un contesto formativo e politico che non aiuta di fatto chi ha talento e dedizione da impiegare nell’assistenza socio-sanitaria. Le scuole di medicina possono anzi produrre disorientamento, indurre uno stile formativo infantile, stilare graduatorie impersonali, imprecise, inique. Un professionista cura malati e non malattie: ma dove può imparare a svolgere un colloquio, a interloquire con familiari ansiosi, a percepire e gestire la tensione emotiva, a condividere con un paziente le delicate scelte cliniche che potrebbero cambiare una vita? Ciò che l’istituzione sacrifica, inseguendo il mito del «primo della classe», lo può forse miracolosamente salvare l’esperienza di questa amicizia al maschile, la quale vive di un’alleanza leale, agonistica, esigente, comprensiva.


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Data di aggiornamento: 29 Ottobre 2021
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