Il sacerdote monaco, padre degli orfani rumeni
Non è immediato entrare in sintonia con padre Ireneo Barle, 47 anni, il viso serafico, la lunga barba dei preti ortodossi. C’è qualcosa di insolito in lui. Ma cosa? All’inizio ti colpisce il particolare strano: ha una minuscola chiesa piena di icone dorate nel cuore della Transilvania, in Romania, a Prislop, un paesino di 350 anime. «L’ha decorata un artista che scrive la Parola di Dio con i colori – spiega –, per arrivare a dirci che la vera bellezza è quella che l’occhio non vede». Un altro elemento si aggiunge al puzzle: Padre Ireneo parla parole senza materia. Un visionario? Un santo? Un folle? Poi scopri che ha tanti figli (più di cento), «sbattuti fuori», a 18 anni, dagli orfanotrofi lager della Romania. E non capisci come faccia un uomo che sembra nato per la meditazione e la preghiera a essere anche un padre in carne e ossa. «Siamo una famiglia, una vera famiglia» ci tiene a precisare. Ma le «stranezze» non finiscono qui. Ireneo è uno «ieromonaco», cioè un sacerdote-monaco, ed è l’unico cattolico del suo paesino. La chiesetta dorata l’hanno costruita suo padre e sua madre, entrambi ortodossi, come del resto tutti gli abitanti di Prislop.
Che ci fa allora un pastore con un popolo che non è il suo, con una missione che non è la sua nel cuore della Transilvania? «Dio scrive dritto sulle righe storte degli uomini», diceva Madre Teresa. «Da sempre sognavo di diventare sacerdote – racconta Ireneo –. Nel 1990 ho capito che la comunione con la Chiesa cattolica era la mia strada. Così sono entrato nella Chiesa Romena Unita a Roma (greco-cattolica), conservando il mio patrimonio ortodosso. Ho deciso di rispondere all’appello di Giovanni Paolo II, che voleva far rinascere la spiritualità monastica orientale nei territori dell’ex Unione Sovietica». Per la sua famiglia è un doppio shock: «I miei pensavano che sarei diventato un sacerdote ortodosso sposato e avrei continuato la mia stirpe». La sua nuova appartenenza rischia, inoltre, di infrangere la serenità del paesino. Prima del ’48, Prislop era a maggioranza cattolica. Il regime comunista ha eliminato fisicamente la Chiesa Romena Unita e ceduto i suoi beni alla Chiesa Ortodossa. «Per il bene di tutti, i miei decisero di assecondare la mia vocazione e costruirono la chiesa».
La sua «grande famiglia» arriva poco dopo. È il 2002. È appena tornato dagli studi di teologia a Roma: «Ero a pranzo da un amico per festeggiare il primo giorno dell’anno. Sua moglie lavorava in un orfanotrofio della zona e chiesi di andarlo a visitare. Rimasi sconvolto: più di 130 tra ragazzi e ragazze vivevano in stanzoni da 30-40 letti. Nel buio del vecchio edificio, c’era puzza di chiuso e di urina. In un letto un ragazzino con la febbre alta giaceva sotto ruvide coperte militari. Eppure i ragazzi erano felici di vedermi. Mi si appiccicarono addosso, avidi di affetto. Sentii una stretta al cuore. Stavo sprofondando in un abisso di dolore e di ingiustizia».
Nel segno della madre
Come in un flashback la mente ritorna a un altro episodio della sua vita. Sembra lontano e invece è sempre lì, in quell’orfanotrofio nauseabondo. È il 1995. Ireneo è a Roma, al Celio, ospite dei camaldolesi. È in giardino con il rastrello in mano. Si avvicina una suora piccolina. «Senza parlare, mi prende la mano e mi mette una medaglietta della Madonna sul palmo. E poi dice: “Chiedile quello che vuoi, Lei ti esaudirà”. E va via. Rimango perplesso. A quel punto arrivano i frati. Mi chiedono se l’avevo riconosciuta, ma io venivo dal mondo ortodosso, non sapevo chi fosse. Mi dissero che era Madre Teresa di Calcutta. Ci incontrammo più volte negli anni a seguire; l’ultima appena poche settimane prima della sua morte. Lei era una che leggeva dentro. Era il volto della madre».
Dopo la visita all’orfanotrofio, padre Ireneo non ha dubbi. Il piccolo convento, sorto come luogo di meditazione accanto alla chiesetta, diventerà una casa-famiglia. Oggi ci vivono un centinaio di ragazzi abbandonati alla nascita, con enormi vuoti affettivi e gravi problemi fisici, psicologici o da dipendenze. «Quando è venuto qui, lo psichiatra si è messo le mani nei capelli – racconta ridendo –. Mi ha detto che era impossibile far convivere sotto lo stesso tetto tutto questo dolore. Ma noi siamo felici assieme». Padre Ireneo sgrana le storie dei suoi figli come i misteri dolorosi di un rosario. E si commuove. Il primo ragazzo è arrivato qui alcolizzato. In 18 anni di orfanotrofio sua madre l’ha visitato una sola volta. Di quel giorno ha una foto che lui conserva gelosamente. Un altro è stato ritrovato in un cassonetto, col corpo ustionato da un ferro da stiro gettatogli addosso nell’intento di ucciderlo. Un altro ancora ha assistito, a 6 anni, all’uccisione della madre per mano del convivente. Lo hanno trovato vicino al cadavere della donna: lo aspettavano 12 anni di orfanotrofio.
La prima cura per questi ragazzi è l’accoglienza. Non è un caso se sulla facciata della piccola chiesa campeggia l’icona di una Madonna con bambino. Con la sua testa in cielo, padre Ireneo spiega: «Il primo grande dono nella vita di ogni essere umano è cercare sicurezza nelle braccia fragili e tremanti della donna che lo ha appena partorito. Ecco la vera bellezza. La Chiesa è la madre fragile che ci prende in braccio».
Ritorno a casa
Il processo di liberazione, come lo chiama padre Ireneo, per questi ragazzi e per chi li accompagna è un tunnel di fatica, una lotta interiore per uscire dalle grinfie del male: «Una nostra ragazza aveva momenti in cui rompeva ogni cosa. Un giorno dopo l’ennesima crisi, le ho chiesto di farmi entrare nel suo dolore. Dopo tanti anni di sofferenza, la ragazza mi ha detto che era stata violentata fin da piccolissima. La chiudevano in una gabbia alla mercé dei topi. E quando vedeva qualcuno che vagamente assomigliava ai suoi violentatori non riusciva più a trattenersi. Da allora, però, non ha più crisi. Il suo mostro è uscito allo scoperto». Non c’è pastiglia che tenga, spiega padre Ireneo: «La medicina dell’anima deve avere la stessa natura dell’anima».
Come si fa a non farsi trascinare nel baratro di tanto dolore? Sorride padre Ireneo, come se fosse la risposta più scontata di tutte: «Io propongo i valori di Gesù. Quando le persone trovano valore, iniziano a trasformarsi. È semplice». E mi fa l’esempio di uno dei suoi figli. Rubava alla comunità, bestemmiava e si comportava da bullo: «L’ho portato in un quartiere malfamato e gli ho detto: “Ti ho riportato nel tuo mondo. La nostra casa è un altro mondo. Vuoi essere mio figlio? Sta a te decidere. Io non ti trattengo”. L’ho lasciato là, sbalordito e incredulo. Il giorno dopo è tornato, era un uomo diverso. La vita sveglia. La Verità del Signore sta in piedi da sé». Nel suo cammino verso la luce, padre Ireneo ancora una volta è accompagnato dai suoi genitori e da tanti amici che accolgono i ragazzi come figli. La «normalità», come la intendiamo noi, per molti di loro non sarà più possibile. Troppo gravi le ferite. «Ma la gioia di sentirsi amati cambia la vita».
Padre Ireneo ha assistito a decine di risurrezioni: «Bellezza è vedere qualcuno che esce alla luce – afferma con parole che sembrano un salmo –. Entrano in chiesa i miei ragazzi, e il loro volto è come quello dei santi. Sorridono finalmente. Sono pieni di luce. È trasfigurazione. Ed è il dono più grande che Dio mi ha fatto». Poi gli occhi ritornano lucidi, per l’ultimo racconto: «Nel momento del battesimo, invito i ragazzi che mi chiedono il sacramento a dire qualcosa alla comunità. Il ragazzo del cassonetto, inizia a piangere. Poi dice: “Chiedo perdono per l’odio che ho contro mia madre. Solo Dio sa perché voleva uccidermi. Ma io ora non voglio che ci sia quest’ombra su di lei”. Rimango senza parole, con tutta la mia teologia alle spalle non sarei mai riuscito ad arrivare a tanto». Poi sdrammatizza, padre Ireneo, pensando a un altro dei suoi figli: «Nel momento del battesimo, col suo solito tono da picaro e gli occhi furbi, ha detto alla comunità: “Questa è la mia seconda nascita. Ora ho capito che mio padre – e indica me con la mano – non può più buttarmi per strada».
Par di vederla la chiesetta dorata nel giardino lussureggiante. Come un’immagine di Google Earth. La grande Madonna sulla facciata, il fonte battesimale, i ragazzi vestiti di bianco, il monaco sacerdote cattolico, la comunità ortodossa. E poi una «zumata» fino a Roma, a madre Teresa, a Giovanni Paolo II, e ancora su su fino a dove l’occhio del satellite non vede più, su fino alle braccia fragili e tremolanti di una madre sfinita dal parto. «Che ti fanno sentire finalmente a casa».