Impariamo ad ascoltare

Nella società dell'iperconnessione stiamo diventando incapaci di ascoltare. Eppure proprio l’ascolto è la caratteristica che più di ogni altra dice la nostra umanità. Come possiamo, allora, rieducarci a un autentico ascolto?
21 Gennaio 2022 | di

La vita nasce dall’ascolto e di ascolto si nutre. Sin nel grembo materno il bambino sente la voce di sua madre, i battiti del suo cuore. Ma anche i rumori del mondo esterno. Perché l’udito, ancor prima del tatto, è il senso che da principio si sviluppa nell’essere umano. O meglio: il tatto comincia a svilupparsi a otto settimane di gestazione, ma affinché la percezione tattile sia completa bisogna attendere la trentaduesima settimana.

L’apparato uditivo, invece, prende completamente forma già tra l’ottava e la decima settimana, facendo sì che l’utero materno si trasformi in una cassa di risonanza che permette al piccolo di sentire i suoni che lo circondano. Che sia, quindi, proprio l’udito il senso che più contraddistingue la nostra umanità? Non la vista, non l’odorato o il tatto o il gusto, ma l’udito ci dice infatti che esistiamo e ci introduce, da subito, nel mondo che saremo chiamati ad abitare.

Se dunque le cose stanno così, è indubbio che la nostra vocazione primaria è di essere donne e uomini d’ascolto. D’altra parte, lo scriveva già duemila anni fa il filosofo greco Plutarco nel suo trattatello morale-pedagogico L’arte dell’ascolto: «La natura, si dice, ha dato a ciascuno di noi due orecchie ma una lingua sola, perché siamo tenuti ad ascoltare più che a parlare». Raccomandazione quanto mai attuale oggi, in tempi di social media, quando tutti vogliono dire la loro su ogni argomento, anche (e forse soprattutto) quando non ne sanno nulla, e ben pochi sono coloro disposti ad ascoltare sul serio.

A questo punto però è d’obbligo una precisazione: udito e ascolto, che finora abbiamo utilizzato quasi come sinonimi, non sono la medesima cosa. Ascoltare non significa infatti solo prestare attenzione ai suoni che raggiungono il nostro padiglione auricolare. Ascoltare è un’azione complessa, che richiede di mettere in campo la volontà di chi ascolta, il rispetto per chi parla e un buon allenamento. Significa essere disposti a fermarsi, a mettere in pausa i propri pensieri per sentire che cosa l’altro ci vuole comunicare, facendo tacere per un po’ quell’ego ipertrofico che spesso ci caratterizza.

Pier Luigi Ricci, educatore e formatore, e già docente di Pedagogia delle comunità all’Università di Siena, lo spiega con un’immagine simbolica ma estremamente efficace: «Ciascuno di noi ha una sorta di telecamera interiore che porta sempre con sé e che in genere è rivolta verso se stesso. Ascoltare l’altro significa voltarla verso di lui, accettando di non essere più il protagonista dei propri pensieri». Un agire tutt’altro che facile, dicevamo, che richiede attenzione (ascoltare deriva infatti dal latino auscultare, cioè udire con attenzione): a quanto l’altro ci vuole trasmettere, alle sue parole, ma anche al tono della sua voce, alla posizione del suo corpo, alle sue modalità espressive. In sintesi: richiede di farsi attenti e disponibili a fare spazio all’altro, alla sua persona e a ciò che dice, riconoscendole unicità, dignità e rispetto.

Allenarsi all’ascolto

«L’ascolto è così importante che dovrebbe essere materia di insegnamento nelle scuole»: a dirlo è Julian Treasure, tra i maggiori esperti di abilità sonore e comunicative. Il quale sostiene che l’ascolto si impara, a patto però di allenarsi a esso con una certa continuità. Nel corso di una Ted conference (acronimo di Technology entertainment design, marchio di conferenze americane gestite da un’organizzazione no-profit, nato nel 1984 con lo scopo di divulgare «idee che val la pena diffondere») Treasure ha sottolineato come durante le conversazioni ciascuno di noi impieghi il 60 per cento circa del tempo ad ascoltare, ma ricordi appena il 25 per cento di quanto viene detto. «Perché – avverte l’esperto – siamo bombardati da troppi stimoli sonori e visivi, e spesso preferiamo registrare o scrivere quanto viene detto piuttosto che concentrarci sulle parole del nostro interlocutore. Per sfuggire alla cacofonia visiva e acustica nella quale siamo costantemente immersi, poi, a volte ci rifugiamo nelle cuffie, trasformando così lo spazio condiviso in tanti piccoli spazi uditivi personali, con il risultato che nessuno ascolta più nessuno. Inoltre, siamo diventati impazienti: vogliamo sempre più spesso messaggi telegrafici e non siamo in grado di apprezzare l’arte oratoria».

Per riparare, in parte, a questa tendenza, Julian Treasure propone cinque semplici esercizi che possono aiutarci a incrementare la nostra capacità di ascolto consapevole. Il primo suggerisce di restare per almeno tre minuti al giorno immersi nel totale silenzio: un tempo breve, ma già sufficiente per cominciare a ricalibrare il proprio udito. Il secondo, definito dall’esperto «il mixer», consiglia invece di restare immersi in un normale ambiente carico dei rumori della vita quotidiana, cercando di riconoscere i differenti suoni che percepiamo. Il terzo consiste nell’«assaporare», vale a dire nell’imparare a godersi i suoni comuni che, se prestiamo la giusta attenzione, possono rappresentare anche una sorta di gradevole «coro nascosto».

Il quarto esercizio (a detta del nostro esperto il più importante) si chiama «le posizioni di ascolto». L’idea di fondo è quella di osservare il nostro atteggiamento mentre dialoghiamo, per poi spostarci consapevolmente nella posizione di ascolto più adatta al contesto (critica/empatia, ascolto attivo/passivo, ecc…). Questo esercizio è particolarmente utile, perché sviluppa la consapevolezza del tipo di relazione d’ascolto che stiamo vivendo e dei suoi obiettivi.

Infine, il quinto esercizio, che Treasure ha chiamato con una parola sanscrita, rada, che significa ricevere. In questo caso l’esercizio prescrive di dare attenzione alle persone con cui interloquiamo, di apprezzarle, di mandare loro dei piccoli segnali (emettendo, per esempio, nel corso del dialogo, dei piccoli suoni: ohhh, mmmh…) che servono a confermare il nostro interesse per quanto stanno dicendo, per poi, solo alla fine del discorso, porre loro quelle domande che ci danno la sicurezza di aver inteso bene quanto volessero comunicarci.

«È davvero importante che ciascuno di noi, per vivere appieno – conclude Treasure –, reimpari ad ascoltare consapevolmente, restando connesso nello spazio e nel tempo al mondo fisico che lo circonda. Tutti connessi nel comprenderci a vicenda, connessi spiritualmente, perché ogni cammino spirituale si fonda sull’ascolto e sulla contemplazione».

L’ascolto attivo

Attorno agli anni ’60 del secolo scorso, lo psicologo umanista Carl Rogers coniò il binomio «ascolto attivo» (active listening), per indicare l’atto intenzionale che ci vede impegnati ad ascoltare non solo quanto l’altro ci riferisce in modo esplicito, ma anche quello che egli comunica in modo implicito, vale a dire con l’atteggiamento, il tono della voce, i movimento del corpo. Nel suo libro più famoso, Terapia centrata sul cliente (che, a dispetto del titolo, è una vera miniera di preziosi consigli per migliorare le relazioni interpersonali di chiunque), Rogers così descrive le varie fasi dell’ascolto attivo: osservare e ascoltare il messaggio verbale dell’altro; fare una ipotesi sulle sue emozioni; comunicargli la nostra impressione, facendo attenzione a utilizzare un atteggiamento empatico; attendere la risposta dell’altro, che può essere di conferma o di correzione rispetto a quanto abbiamo compreso.

Secondo lo psicologo statunitense, solo l’ascolto attivo è in grado di indurre un reale cambiamento nell’interazione, in quanto esso predispone entrambi i soggetti a uno scambio positivo. Non a caso l’ascolto attivo è spesso utilizzato per la soluzione dei conflitti e la mediazione culturale. Pioniera dell’ascolto attivo in Italia è Marianella Sclavi, etnografa, attivista e accademica. Anche Sclavi, co-fondatrice del sito www.ascoltoattivo.net, ha la sua ricetta per sviluppare l’ascolto attivo, che consta di sette punti, i quali hanno lo scopo di mostrarci come, attraverso un ascolto lento, attento, empatico e ricco di umorismo (facoltà che aiuta a sorridere di se stessi e a smorzare le tensioni) si possano davvero risolvere molti dei conflitti quotidiani.

Ascoltare sé, gli altri, Dio

Lo ha già detto Julian Treasure: ogni cammino spirituale si basa sull'ascolto. Degli altri, di se stessi, di Dio. Veri «esperti» in tal senso sono i monaci e le monache, da sempre abitanti del silenzio e per questo assidui frequentatori dell’ascolto. «Chiunque abbia una pratica di colloqui profondi e personali – sottolinea Luciano Manicardi, priore della Comunità monastica di Bose (BI) – sa benissimo di dover ascoltare non solo le parole, che spesso “velano” la realtà, ma anche il linguaggio corporeo dell'interlocutore, perché il corpo non mente mai. Non solo. Per ascoltare veramente bisogna anche rompere i pregiudizi e questo è un tema molto attuale in una società come la nostra, impregnata di pregiudizi.

Il poeta Edmond Jabès, parlando dello straniero, scriveva: “Lo straniero ti dice: ‘Avvicinati. A due passi da me sei ancora troppo lontano, mi vedi per quello che sei tu e non per ciò che io sono’”. Perché ascoltare significa anche lasciar entrare l’alterità dell’altro in se stessi. E poi, ancora, significa dare del tempo e quindi dare vita, perché il tempo è la sostanza della nostra vita. Forse dovremmo recuperare quella bella espressione che non si usa più: dare ascolto, che significa dare tempo, presenza, vita, parola. Perché nella relazione (e questo è il filoso Emmanuel Lévinas che ce lo ricorda) parlare e ascoltare non sono semplicemente alternati, ma contemporanei. La vera parola è parola che ascolta e il vero ascolto è un ascolto parlante.

Ascoltare, inoltre, è anche comprendere nel senso etimologico di prendere dentro di sé. Ce ne fa memoria il Vangelo di Luca (10,38-42), laddove ci narra l’episodio di Marta e Maria: Marta accoglie in casa Gesù, e Maria, attraverso l’ascolto, lo accoglie in sé, si fa lei stessa casa del Signore. Poi, certo, ascoltare davvero significa anche discernere ciò che è stato detto, intellegere, leggere dentro, e dunque compiere una scelta».

Il monaco, abbiamo detto, abita il silenzio, ma nel silenzio è quanto mai necessario saper ascoltare se stessi, per non perdersi. «Ascoltarsi – spiega il priore di Bose – significa innanzitutto ascoltare le proprie reazioni interiori a ciò che si vive. E poi interrogarsi: “Perché avverto in me questa collera, questa rabbia, questa tristezza, questa malinconia?”. Non per demonizzare quanto proviamo, ma per comprenderne la ragione profonda. Tale opera di conoscenza di sé è necessaria, ma anche molto difficile oggi, perché spesso vengono meno le tre precondizioni che a mio parere sono indispensabili. Vale a dire: una solitudine ricercata, desiderata, abitata. Quando siamo costantemente connessi, quando abbiamo davanti a noi a portata di clic il mondo intero, come possiamo vivere la solitudine?.

Poi, il silenzio, che oggi è molto temuto: viviamo in una idolatria della comunicazione continua e dell’informazione non stop, che rischia non solo di uccidere l’ascolto ma anche la parola, che, parlata o scritta che sia, ha sempre bisogno dello spazio bianco per non cadere nel non senso. E, infine, il terzo elemento, per definire il quale utilizzo un sostantivo greco della tradizione spirituale orientale: esichia, ovvero la capacità di “stare” senza fare niente. Una sorta di otium nel quale è tutt’altro che semplice sostare. Se ci sono queste tre precondizioni, oltre a vivere un ascolto vero di noi stessi, sviluppiamo anche quell’attenzione che in greco si dice prosoché, e che dalla filosofa e mistica Simone Weil è stata accostata al termine proseuché, preghiera. Perché il vero ascolto di sé è sempre anche una prima forma di preghiera “naturale”».

Rimane a questo punto un ultimo grande capitolo da affrontare: l’ascolto di Dio. Come si fa ad ascoltare davvero il divino? «L’allora teologo Joseph Ratzinger – sottolinea a riguardo Luciano Manicardi – commentando il Proemio della Dei verbum (la Costituzione dogmatica dei Concilio Vaticano II sulla Divina rivelazione), documento che si apre così: “In religioso ascolto della parola di Dio”, pose il discorso su un piano ecclesiologico, sottolineando come unicamente dall’atto di ascolto del Verbum Dei, cioè del Dio che parla, possa nascere ogni atto di parola della Chiesa stessa. Dunque, per ascoltare Dio è necessario anzitutto imparare ad ascoltare la sua Parola nella Scrittura. Solo così possiamo affinare il nostro sguardo per poter poi valutare le situazioni, le persone, gli eventi, la Storia e arrivare a darne un giudizio che sia evangelicamente formato e plasmato.

Certamente, e papa Francesco ce lo ricorda costantemente, anche il povero, la persona malata, il nemico hanno nei nostri confronti una forza di conversione: in essi c’è sempre una valenza sacramentale. Però è fondamentale, a mio modo di vedere, l’ascolto della Parola del Vangelo, nel quale, oltretutto, ascoltare ha pure il significato di obbedire e di vivere. Ogni volta che ci accostiamo ai Vangeli, dovremmo chiederci: qual è l’umanità che abita in Gesù di Nazareth? Chi è l’uomo che entra nel Tempio e ne caccia via i mercanti e i cambiavalute? O che dinanzi alla prostituta vede in lei e nei suoi gesti l’amore e non il peccato? In definitiva, sta tutta qui la radice dell’ascolto di Dio e del Dio rivelato in Gesù: rendere pian piano la nostra umanità sempre più simile a quella di Gesù di Nazareth».  

 


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Data di aggiornamento: 21 Gennaio 2022
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