Perché parola e azione non si ammalino

Senza il respiro del silenzio, la comunicazione rischia di diventare rumore e di capovolgersi nel suo contrario: insignificanza e solitudine o, peggio, isolamento. Senza contemplazione, l’azione sprofonda in attivismo e iperattività.
27 Luglio 2019 | di

È importante parlare di etica della comunicazione, garantire l’alfabetizzazione ai linguaggi e l’accesso alle tecnologie, curare la forma e i contenuti della comunicazione. Ma senza il respiro del silenzio, la comunicazione rischia di diventare «rumore» e di capovolgersi nel suo contrario: l’insignificanza da un lato e la solitudine o, peggio, l’isolamento, dall’altro.

La parola che non sia chiacchiera è «striata» di silenzio. Il silenzio è fare spazio ad altro da sé, ed è condizione dell’ascolto. Di una comunicazione che possa essere dialogo anziché scontro di monologhi.

Lo stesso vale per l’azione. Attivismo, iperattività sono le malattie dell’azione quando non sa lasciare spazio alla contemplazione. L’azione è un prolungamento di noi stessi, un modo per esercitare il nostro potere (per piccolo che sia) sul mondo. L’azione dice «io».

Senza un respiro che preveda il contemplare, il silenzio dell’io (che è un silenzio del corpo, della volontà) non si può creare lo spazio per accogliere altro da noi. Contemplare è aprirsi ad altro. Dimenticandosi per un momento di se stessi, ma con questa mossa, paradossalmente, recuperando poi una coscienza più viva di sé, del proprio posto nel mondo e del contributo che si può portare. Chi vuole trattenere, affermare, potenziare la propria vita, alla fine la perde. Chi è disposto a lasciarla andare, a dimenticarsene, a far spazio ad altro, la ritrova più piena. È il paradosso evangelico, più vivo che mai oggi. Sia l’estate un tempo per questo movimento di libertà.

 

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Data di aggiornamento: 27 Luglio 2019
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