Invecchiare a casa

È giusto che una famiglia sia sola a prendersi cura di un anziano non autosufficiente? Ecco le omissioni e i pregiudizi che hanno impedito finora una riforma del sistema di assistenza. Con una speranza...
07 Novembre 2022 | di

Succede in centinaia di famiglie ogni giorno: il nonno, la mamma anziana, lo zio ottantenne perdono in tutto o in parte la capacità di badare a se stessi ed è necessario trovare il modo di assisterli. All’inizio non è facile da accettare sia da parte dell’anziano che da parte dei familiari, specie se c’è bisogno di un aiuto esterno. Di fatto si entra in una fase delicata in cui l’anziano fatica a riconoscere il suo bisogno, rischia di sentirsi un peso, ma al contempo rifiuta la presenza di estranei, mentre i familiari, in particolare le donne, sono colpiti da un vortice di emozioni: dispiacere, disorientamento, affanno per le complicazioni pratiche, senso di colpa ma soprattutto preoccupazione di non essere in grado di gestire questa fase della vita nel modo migliore per il congiunto e per il resto della famiglia. In molti casi un aggravamento o una malattia precipita la situazione, e si è costretti a cercare risposte tampone in un deserto di figure professionali di riferimento e di servizi sociali e sanitari, soli di fronte a una situazione dai molteplici risvolti assistenziali, psicologici, medici, economici, relazionali.

Gran parte delle famiglie si prende cura del proprio anziano da sola, sia per motivi affettivi che economici, altre si affidano a una «badante», l’assistente familiare, grazie al tam tam dei parenti e degli amici, con un esborso non indifferente e senza la sicurezza di poter contare su un’assistenza qualificata. Ma è giusto e normale che le cose vadano avanti così da decenni? Il rischio è che, schiacciati dall’emergenza, si perdano per strada diritti sanciti dalla Costituzione e valori familiari e sociali legati proprio agli anziani, trasformando l’ultima parte della vita in un problema invece che in una risorsa. È bene esserne consapevoli soprattutto adesso che, grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), come vedremo, l’Europa ci obbliga a rivoluzionare il welfare italiano anche in materia di anziani non autosufficienti. Una svolta epocale, che non possiamo permetterci di perdere.

I dati ci dicono da tempo che l’Italia sta invecchiando, è il secondo Paese al mondo con la popolazione più anziana, e se nel 2002 l’indice di vecchiaia, cioè il numero di anziani ogni 100 minori di età inferiore a 15 anni, era 131,7, vent’anni dopo, nel 2022, è cresciuto a 188. Le previsioni Istat sul 2050 indicano che il rapporto tra giovani e anziani sarà di 1 a 3. Nel contempo cresce il numero di famiglie composte da una sola persona – che già oggi sono una su tre –, e quelle senza figli. Ciò significa che in un futuro vicino molti anziani si troveranno a fronteggiare da soli gli eventuali problemi di salute o di non autosufficienza. I dati sono solo dati, ma diventano allarmanti quando chi ha il potere di prendere decisioni li ignora, lasciando di fatto che un cambiamento sociale che richiederebbe provvedimenti mirati diventi un problema incontrollabile e, peggio, buttato sulle spalle delle famiglie e sugli anziani stessi. Come si è arrivati a questo punto nonostante la situazione fosse prevedibile e, soprattutto, come è possibile fermare questa deriva, costruendo un modello diverso di assistenza e, per estensione, di società? Servono innanzitutto due cambiamenti culturali: il capovolgimento del punto di vista e il superamento di alcuni radicati pregiudizi.

Cambiare visione

La premessa per cambiare passo è mutare la visione dell’invecchiamento, ampliando lo sguardo ad altri fattori che rimangono nell’ombra: «Il tema è trattato solo in maniera negativa – afferma Tiziano Vecchiato, presidente della Fondazione Zancan ed esperto di welfare –. Si sottolineano solo i problemi, facendo diventare la vecchiaia un dramma sociale. In questo modo la vittima viene criminalizzata, perdendo l’occasione di individuare le reali responsabilità, ma anche il fattore affettivo, l’eredità di saggezza e di esperienza che ogni anziano porta con sé. Prendersi cura dei propri cari fa parte del ciclo della vita, ha il suo valore, che però deve trovare il giusto modo di esprimersi, il giusto riconoscimento e il giusto sostegno sociale».

Se non cambia la narrazione della vecchiaia, difficilmente si possono superare i pregiudizi che impediscono una svolta nell’assistenza. Il primo pregiudizio è che la cura dei propri anziani sia solo un fatto privato. È una visione di comodo in una società che mira alla massimizzazione del profitto nel breve termine, ma tende a perdere di vista il quadro d’insieme, il bene generale. Evitare di gestire le situazioni complesse e ampiamente previste per tempo, in realtà alla lunga provoca maggiori costi sociali ed economici. «A ben guardare – nota Vecchiato – le due età relegate alla sfera privata, cioè prive di responsabilità sociale, sono quelle più fragili: la fascia dei bambini sotto i 3 anni e quella degli anziani sopra i 65. Questo perché siamo una società individualista, che considera socialmente rilevante solo ciò che è produttivo».

Eppure la Costituzione all’articolo 32 parla chiaro: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività». Nella cura dei nostri anziani con disabilità e malattie croniche dovremmo quindi essere in buona compagnia. E invece…Il secondo pregiudizio è ritenere che l’anziano sia solo un costo, in realtà è una risorsa anche a livello economico. «La fascia oltre i 65 anni è la seconda in Italia quanto a possibilità di spesa, dopo quella tra i 55 e i 65 anni – spiega Vecchiato –. Non a caso molti anziani stanno aiutando economicamente i figli – che al contrario spesso si trovano in difficoltà finanziarie o lavorative – e sono anche quelli che pagano le badanti». Ciò che sembra sfuggire alla sfera pubblica è che l’anziano potrebbe essere una risorsa economica anche in quanto bisognoso di assistenza.

«Già ora le mille necessità degli anziani, seppur nel caos delle soluzioni di emergenza, hanno prodotto centinaia di migliaia di posti di lavoro – regolari e irregolari –. In un’ottica di riforma del sistema, ciò potrebbe aprire grandi possibilità di sviluppo per tutte le professioni della cura, creando lavoro, a vari livelli di qualificazione. Apposite politiche potrebbero, per esempio, far emergere dal nero molte badanti, a vantaggio delle casse dello Stato, ma anche a tutela dei lavoratori e dei loro assistiti. Al momento gli unici che hanno fiutato la possibile miniera d’oro sono i privati, alcuni dei quali si sono buttati a capofitto nel business dell’assistenza. Il segno più concreto che in realtà i soldi ci sono. Perché allora non utilizzarli per il vantaggio di tutti?».

Non possiamo permettercelo?

Un altro pregiudizio che blocca ogni possibile riforma è quello di credere che un welfare, cioè un’assistenza pubblica a misura di anziano, sia un lusso che non possiamo permetterci. «I soldi ci sono – spiega Vecchiato –, il problema è che vengono impiegati in modo improduttivo. L’Italia spende in sanità e assistenza alle persone con ridotta autonomia circa 32,1 miliardi di euro all’anno, pari a 1,93 per cento del Pil (2020). Solo che mentre la spesa sanitaria viene trasformata in servizi, quella socio-assistenziale è gestita con trasferimenti monetari, in maggioranza indennità di accompagnamento, che danno un sollievo ma non risolvono i problemi assistenziali. È anche da questa prassi che deriva il ricorso alla badante in nero». Per esempio, solo una piccolissima parte della spesa sociale è trasformata in assistenza domiciliare, ma il servizio tocca meno di 400 mila persone non autosufficienti sui 2 milioni e 900 mila stimate e spesso solo per poche ore all’anno, del tutto insufficienti rispetto ai bisogni.

«Non sono i soldi ma i servizi a creare un effetto moltiplicatore di capacità di aiuto» chiosa Vecchiato. I soldi ci sono anche per un altro motivo, mai messo abbastanza in luce. La spesa privata per l’assistenza dei propri anziani è molto elevata, tanto da competere con quella pubblica. Il caso del Veneto lo dimostra chiaramente. «Secondo una nostra ricerca – afferma Cinzia Canali, direttrice della Fondazione Zancan –, già nel 2010-2011 la spesa pubblica per la non autosufficienza in Veneto era pari a circa 1 miliardo e 593 milioni di euro, la spesa privata, regolare e irregolare, era stimata intorno a 1 miliardo e 295 milioni di euro. Valori verosimilmente aumentati nel corso degli anni». Le due voci di spesa quasi si equivalgono, ennesima dimostrazione che i soldi ci sono, ma che, per una serie di ragioni, non producono l’aiuto che servirebbe.

Il motivo è semplice: «Il denaro da solo non basta, occorre un sistema che ne moltiplichi il valore». Vien da chiedersi, magari ingenuamente, che cosa accadrebbe se invece dell’attuale deregulation dell’assistenza, dove ognuno è costretto ad arrangiarsi da sé, si trovasse il modo di mettere a frutto in maniera sinergica la spesa pubblica e quella privata, inventandosi un nuovo modello. Il tema è tra i più discussi dagli esperti del settore e tante sono state negli anni le ipotesi di riforma, ma si tratta di un dibattito che poco raggiunge la società civile. Tanto che i pregiudizi che impediscono il cambiamento si perpetuano anno dopo anno, governo dopo governo. C’è però un fatto nuovo che potrebbe cambiare radicalmente il nostro sistema di assistenza, per avvicinarlo alle migliori pratiche europee. Sulla carta è una svolta epocale, resa possibile dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), il documento strategico di investimenti e riforme che il governo italiano ha predisposto per accedere ai fondi europei del programma Next Generation EU, stanziati per la ripartenza dopo la crisi pandemica.

Il piano prevede 3 miliardi e mezzo per rilanciare l’assistenza agli anziani, per trasformare le Rsa in piccoli appartamenti autonomi e assistiti, e per raggiungere gli anziani fuori dai grandi centri abitati. Misure urgenti perché, recita il Pnrr, il numero di anziani non autosufficienti passerà dai 2,9 milioni ai 5 milioni entro il 2030. Lo spirito della riforma è quello di aumentare gli aiuti a casa, limitando al massimo il ricorso alle residenze per anziani. Per questo a essere potenziata sarà proprio l’assistenza domiciliare, che oggi copre il 6,5 per cento degli anziani, con una media di appena 18 ore all’anno, contro le 20 ore mensili ritenute necessarie a livello internazionale. L’obiettivo del piano è quello di prendere in carico il 10 per cento degli over 65 con patologie croniche o non autosufficienti.

Puoi leggere il dossier completo nel numero di novembre del «Messaggero di sant'Antonio». Prova la versione digitale!

 

Anziani non autosufficienti: un esempio di «resistenza» per ottenere il diritto alla convenzione in Rsa

Di Fondazione promozione sociale onlus / ETS

La Signora Barbara (nome di fantasia) ci telefona per chiedere aiuto. La mamma, ultraottantenne e con malattie croniche, non è autosufficiente, ma ultimamente soffre anche di deliri persecutori. Adesso è ricoverata in una Casa di cura della periferia di Torino, dove è stata trasferita in lungodegenza a seguito di un ricovero al pronto soccorso, perché la figlia e la badante non sapevano più come gestirla. Adesso il problema è come fare, perché la Casa di cura ha già informato che, entro un paio di settimane, verrà dimessa. Intanto la badante si è licenziata e la figlia potrebbe sostenere i costi per il ricovero in una Rsa solo per pochi mesi. Una sua collega le ha parlato della Fondazione promozione sociale e della possibilità di opporsi alle dimissioni. Cosa vuol dire? Come possiamo aiutarla? In questi casi il nostro compito principale è rassicurare sul diritto del loro congiunto a ricevere tutte le cure di cui necessita, secondo quanto previsto dalle norme vigenti in base alle quali il Servizio sanitario nazionale è tenuto ad assicurare la continuità delle cure senza limiti di durata. Pertanto, nel caso in cui un nostro familiare anziano non sia più autosufficiente (ad esempio, è allettato oppure è colpito da Alzheimer o da altre forme di demenza), è sempre possibile chiedere all’Asl competente per la sua residenza che il malato venga sottoposto ad apposita Unità valutativa geriatrica, al fine di ottenere una presa in carico definitiva da parte del Servizio sanitario nazionale.

In particolare, per quanto riguarda i ricoveri in Rsa, è sempre bene ricordare che, mentre le prestazioni sanitarie dovute per la fase acuta o per la riabilitazione sono gratuite, se la situazione è stabilizzata, la retta della degenza presso Rsa è a carico dell’Asl nella misura del 50%, se il ricovero viene disposto dalla stessa. La quota rimanente resta invece a carico del ricoverato, secondo le norme nazionali sull’Isee, nonché del Comune per la parte non coperta dal ricoverato sulla base di dette norme. A tal proposito, ricordiamo che l’Isee verrà richiesto dal Comune, nel caso in cui il ricoverato non disponga di risorse sufficienti e presenti, pertanto, domanda di integrazione alla retta di ricovero. Il Comune ha l’obbligo di garantire l’integrazione economica, se l’interessato rientra nei requisiti di legge, di cui al Dpcm 159/2013 e s.m.i.

La Signora Barbara, seguendo le nostre indicazioni e sempre con corrispondenza scritta, è così riuscita ad ottenere la continuità delle cure per la madre non autosufficiente fino a che l’Asl ha autorizzato il ricovero definitivo in convenzione in Rsa.

ATTENZIONE: in questi casi, è molto importante la designazione anticipata di un Amministratore di sostegno che, nel caso in cui il beneficiario dovesse trovarsi nella condizione di non autosufficienza, temporanea o permanente, possa agire in nome e per conto del malato e tutelarne gli interessi.

Data di aggiornamento: 07 Marzo 2023

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