Italiani? Popolo di irrazionali
Negli ultimi due anni il mondo è cambiato. La fragilità, che avevamo dimenticato, si è palesata in modo improvviso e violento, ricordandoci che basta un minuscolo virus per metterci ko. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: a parte i non secondari problemi economici, ci siamo trovati a fare i conti con ansia generalizzata, dinamiche negazioniste, aumento della conflittualità sociale. Speravamo, agli inizi della pandemia, che ne saremmo usciti migliori e invece anche in questo caso il nostro limite l’ha fatta da padrone, diffondendo un clima da «si salvi chi può» che ha sepolto spesso ogni forma di solidarietà e reciproco aiuto.
Se l’evidenza dei fatti non bastasse, ora abbiamo anche il supporto dei dati. A dicembre, infatti, è stato reso noto l’annuale «Rapporto sulla situazione sociale del Paese» redatto dal Censis (Centro studi investimenti sociali, istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964), il quale ci dipinge come un popolo irrazionale e pure un po’ credulone. In realtà, questo già pareva l’andazzo italiano da ben prima del covid: la conferenza Ipsos del 2015 ci aveva tratteggiati esattamente così. Su quaranta nazioni nelle quali un campione rappresentativo di cittadini era stato sottoposto a interviste (ben centomila in totale) l’Italia era risultata essere quella in cui esisteva la maggiore discrepanza tra percezione e realtà.
I dati della ricerca erano finiti in un interessante volume (I rischi della percezione, Einaudi) di Bobby Duffy, ricercatore di Ipsos Mori e docente al King’s College di Londra, il quale si chiedeva perché noi italiani avessimo idee sbagliate su quasi tutto. Qualche esempio? All’epoca ci dicevamo certi che gli immigrati rappresentassero il 28 per cento della popolazione, mentre erano appena il 9. Pensavamo che gli anziani (popolazione over 65) fossero il 48 per cento del totale, mentre erano il 21. E via di questo passo. E pareva fosse «solo» un problema di distorsione confermativa, cioè di quel meccanismo psicologico in base al quale diamo più valore alle informazioni che combaciano con le nostre idee, mentre rifiutiamo quelle che ci danno torto mettendo in qualche modo in crisi le nostre convinzioni personali. Invece, a quanto sembra, il problema è ben più profondo.
Se le cose non vanno
Ma torniamo al Rapporto Censis 2021: in questo caso a farci definire irrazionali e creduloni non è una percezione errata, bensì la nostra reazione a una realtà che non ci piace. Anzi, che ci disorienta e spaventa. L’analisi del Censis, infatti, ci mostra che in Italia, accanto a una maggioranza di persone «ragionevole e saggia», si sta levando «un’onda di irrazionalità», minoritaria è vero, ma pur sempre «spia di qualcosa di più profondo». Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, così l’ha spiegato presentando il progetto: «Il compito del Rapporto è quello di definire un’identità di periodo della società italiana. Ed è indubbio che l’elemento più significativo in quest’ultimo anno è quell’irrazionale che ha infiltrato la società italiana in una componente minoritaria ma non irrilevante, e che si estrinseca sia in posizioni scettiche individuali che in veri e propri movimenti di protesta». E che si ritaglia spazio anche nel dibattito pubblico, come sappiamo, grazie alla diffusione di libri che hanno scalato le classifiche di vendita, e soprattutto di social e tv.
I dati raccolti lasciano poco spazio ai dubbi: secondo il 5,9 per cento degli italiani (3 milioni di persone), il covid non esisterebbe; per il 10,9 per cento il vaccino anticovid sarebbe inutile o inefficace; per il 31 per cento si tratterebbe di una sperimentazione collettiva. A questi va poi ad aggiungersi un 12,7 per cento di connazionali convinti che la scienza produca più danni che benefici; un 5,8 per cento che è certo che la Terra sia piatta; un 10 per cento che lo sbarco sulla Luna non sia mai avvenuto; un 19,9 per cento che il 5G possa controllare le menti delle persone.
Tutta colpa del covid? «Non è una distorsione legata alla pandemia – ha ribadito Valerii –. È un fenomeno che ha radici socioeconomiche molto più profonde: stiamo ancora seguendo quella parabola sociale che il Censis negli ultimi anni ha tratteggiato nei suoi Rapporti e che comprende il fenomeno del rancore sociale e del sovranismo psichico. Si tratta di un fenomeno prevalentemente pre-politico, che oggi sta evolvendo verso un gran rifiuto, da parte di alcuni, del discorso razionale, ovvero di quegli strumenti della ragione con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il benessere: scienza, medicina, farmaci, innovazione tecnologica».
È come se la ragione stesse perdendo forza, «perché nel grande progetto di modernità razionale – ha insistito il direttore generale del Censis –, la ragione era quella che ci proteggeva dall’incertezza dell’ignoto e dai rischi esistenziali, il primo dei quali è il rischio biologico. Gli strumenti della ragione hanno infatti favorito nel nostro Paese l’allungamento continuo dell’aspettativa di vita, sia attraverso l’applicazione delle norme igienico-sanitarie sia delle scoperte scientifiche e dei progressi della medicina. Ma la ragione ci ha difeso anche dai rischi economici, garantendo di fatto il benessere di massa attraverso gli investimenti pubblici e la libertà di impresa individuale, attraverso, cioè, un intreccio virtuoso tra Stato e mercato.
E sempre la ragione ci ha protetto dai rischi sociali, grazie all’istituzione di un apparato pubblico di protezione sociale e di un welfare di impianto universalistico. Ci ha protetto dal rischio dello slittamento posizionale, assicurando quei processi di mobilità sociale ascensionale per mezzo dell’istruzione e dei meccanismi meritocratici di selezione, garantendo così il desiderio di riconoscimento dei ceti sociali più bassi e scongiurando lo spettro del declassamento per il ceto medio. E, infine, ci ha preservati dai rischi di marginalità sociale, grazie a una organizzazione politica capace di condensare le istanze sociali e di tradurle in misure di inclusione e in programmi di allargamento dei diritti civili».
Certo, va detto che le cose non sempre e non per tutti sono andate allo stesso modo. Nemmeno l’Italia è esente da diseguaglianze e ingiustizie sociali e la povertà ha sempre interessato ampie fette di popolazione. Ma, come sempre accade quando si lavora con medie e statistiche, se c’è tra i cittadini chi mangia due polli e chi non ne mangia nessuno, risulterà a chi guarda solo i dati che ne consumano uno a testa. È il problema, appunto, dei macrodati: aiutano a spiegare le grandi dinamiche, ma non possono rendere ragione delle questioni, magari gravi, ma marginali in termini numerici.
Continuiamo dunque a curiosare tra i dati del Censis. E a questo punto non possiamo esimerci dal domandarci: ma perché oggi c’è una componente sociale non irrilevante che rinnega questo progetto di modernità razionale, il quale, tutt’altro che perfetto come abbiamo ricordato, ha comunque garantito una vita buona alla grande maggioranza della popolazione? «Siamo entrati – ha spiegato Valerii a riguardo – nel cosiddetto “ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali”. Vale a dire che la fuga nell’irrazionale è l’esito delle aspettative soggettive che rimangono insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalla realtà razionale».
Per scendere nel concreto, l’esempio più paradigmatico di questo nuovo corso riguarda gli investimenti pubblici su istruzione e formazione. C’è un numero crescente di giovani che, pur avendo nel proprio curriculum una quantità rilevante di titoli di studio (laurea, dottorato, post-dottorato, master di primo e secondo livello…) si ritrova puntualmente con forme occupazionali precarie e insoddisfacenti e redditi da lavoro inadeguati. Un’esperienza che viene a dirci che gli investimenti pubblici e privati nello studio e nella formazione non danno indietro quei rendimenti che garantivano in passato. E che, dunque, non vale più la pena studiare. Con una conclusione, ovviamente, errata, seppure basata su dati reali.
Oggi per due terzi (il 66 per cento) gli italiani sono convinti che nel nostro Paese si viveva meglio in passato e per il 51 per cento sono certi che, nonostante il robusto rimbalzo del Pil nel 2021, non torneremo più alla crescita economica e al benessere del passato» ha insistito Valerii. E anche in questo caso non è solo questione di percezione: negli ultimi trent’anni (1990-2020), infatti, l’Italia è l’unico Paese Ocse, quindi l’unica economia avanzata, in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite del 2,9 per cento in termini reali, a fronte, per esempio, della Lituania in cui invece sono cresciute del 276 per cento o delle più vicine Germania e Francia, dove sono aumentate rispettivamente del 33,7 e del 31,1. E se guardiamo avanti le cose non sembrano destinate a cambiare.
«Nel 2021 – ha specificato il direttore generale del Censis – la crescita del Pil acquisita al terzo trimestre è del 6,2 per cento, ma per il 2022 le previsioni dicono sarà del 4,7, per il 2023 del 2,8 e per il 2024 dell’1,9. Con dati che incorporano l’effetto moltiplicatore sull’economia previsto dal PNRR». Vale a dire che se non si riuscirà a intervenire con misure che portino a una crescita duratura e strutturale, torneremo nel giro di pochi anni a quel tasso di crescita poco superiore allo 0 che ben conoscevamo prima della pandemia. Che fare quindi dinanzi a quel 69 per cento di italiani che si dichiara molto inquieto pensando al futuro, percentuale che sale addirittura al 71 per cento se si parla di giovani? E che, soprattutto se appartiene alle classi sociali più deboli, rischia di rifugiarsi proprio in quell’atteggiamento irrazionale descritto all’inizio?
«Se non riusciremo più ad arginare la proliferazione dei rischi esistenziali che nel passato invece erano previsti, controllati, neutralizzati o risarciti, torneremo, appunto, a quella parabola sociale che abbiamo raccontato come Censis negli ultimi anni – ha avvertito Valerii –. C’è un rischio reale di erosione del patrimonio delle famiglie, esito della diminuzione del reddito (-3,8 per cento in termini reali tra il 2010 e il 2020) al quale bisognerà porre un freno. Dobbiamo fare in modo che il robusto rimbalzo dell’economia dell’anno appena concluso trovi la strada per tradursi in una crescita duratura e strutturale». Questo inevitabilmente dovrà passare attraverso il rilancio della natalità, dell’occupazione e di opportunità di crescita per i giovani, di aumento del tasso occupazionale femminile, fattori che da sempre favoriscono la crescita e il benessere di un Paese. La storia insegna che «si cade nell’irrazionale nei momenti di interregno, di crisi e di trapasso verso una nuova epoca» ha concluso Valerii.
E allora la nuova epoca dovrà per forza di cose essere caratterizzata da «investimenti sociali diffusi e da forti motivazioni individuali, alimentate dalla persuasione che “ne valga la pena”. È il reale che deve incaricarsi di smentire quella porzione della società italiana senza lievito, che è caduta in questo sonno evanescente della ragione, tornando a certificare il valore intrinseco delle scelte razionali». O, in altri termini, bisognerà «far riavvicinare cuore e razionalità. E fare in modo che le ragioni del cuore e quelle della ragione (per dirla con Pascal) si incontrino e si capiscano. Nella vita, il lavoro più importante è progettare futuro. E costruire ponti. Di idee e di parole. Con pensieri veri, tutt’altro che “magici”», come, commentando il Rapporto Censis, ha scritto Antonio Calabrò sull’«Huffington Post».
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