La lotta della fraternità
«La mia nomina è un segno di fraternità verso la Chiesa algerina». La Chiesa algerina ha accolto con un commosso orgoglio la nomina a cardinale dell’arcivescovo di Algeri, Jean-Paul Vesco. Come il suo predecessore, Henri Teissier, il domenicano Vesco ha un legame particolare con il popolo algerino. Sia Teissier che Vesco hanno infatti ottenuto la nazionalità algerina, segno del loro amore sincero per una terra musulmana ma molto rispettosa e protettiva verso i suoi cristiani. Sulle orme dello spirito umanistico del suo santo nativo, sant’Agostino, la Chiesa del Paese nordafricano vanta ora un altro cardinale tra i suoi prelati.
Msa. Era dal 1965, quando Léon-Etienne Duval, arcivescovo di Algeri fu nominato da Paolo VI cardinale, che un Papa non insigniva del titolo cardinalizio un prelato dalla Chiesa algerina. Come arcivescovo della capitale di un Paese musulmano, dove la comunità cristiana in generale e cattolica in particolare è minoritaria, che messaggi porta questo gesto fortemente emblematico, secondo lei?
Vesco. In effetti questa nomina, per molti aspetti, è del tutto inaspettata e un po’ misteriosa per me. È chiaramente un segno dato dal Santo Padre alla nostra Chiesa in Algeria. Senza dubbio anche all’Algeria stessa. Confesso di non conoscere le ragioni profonde della scelta del Papa. C’erano tante altre possibili alternative altrettanto legittime. Avevo sollecitato un’udienza privata in Vaticano per porre direttamente a lui questa domanda. E, anche se non ha risposto direttamente, al termine dell’incontro, la domanda era volata via. Accolgo questa nomina come una scelta, dunque, senza perché e mi piace conservare una parte di questo mistero.
Lei guida la Chiesa di una terra africana e araba che sta a cavallo tra l’Europa cristiana e il sud Mediterraneo musulmano. L’Algeria è un Paese dove l’islam convive con il cattolicesimo da secoli. Durante il drammatico decennio del terrorismo integralista, i cristiani non l’hanno lasciato e sono rimasti anche per solidarietà verso i loro fratelli musulmani, nonostante una ventina di religiosi, tra cui il vescovo di Orano Pierre Claverie, siano stati uccisi. Com’è la vita di un prete domenicano in terra d’islam?
La realtà degli equilibri tra il Nord del Mediterraneo e il suo Sud è molto più complessa. Credo che più che parlare di un Nord cristiano e di un Sud islamico, dobbiamo guardare il quadro di un confronto molto reale tra l’Occidente e il mondo arabo-islamico, senza perdere di vista la porosità e l’interpenetrabilità tra Nord e Sud. Ma è anche vero che il Mare Nostrum, che è stato il centro e la culla di culture e religioni di una straordinaria ricchezza, è ora una linea di frattura culturale, religiosa e politica con la forte questione migratoria. Un confine emblematico tra Nord e Sud, tra due universi che si dividono sempre di più. Nello stesso tempo, come lei ha sottolineato, c’è un passato multisecolare di vissuto comune, anche se non bisogna minimizzare le ferite non ancora cicatrizzate e le strumentalizzazioni che ne vengono fatte da una parte e dell’altra. È molto facile separare anziché unire. Dividere anziché raccogliere. Questo denota l’importanza del tema della fraternità che esiste tra le due rive del Mediterraneo. Abbiamo tutto per essere fratelli… e tutto per essere nemici! Tocca a noi fare la scelta della fratellanza e della vita.
Quest’anno l’Algeria commemora il 200esimo anniversario della nascita del cardinale Charles Lavigerie, fondatore dell’ordine delle suore e dei frati Bianchi. Potrebbe essere un momento di comunione con tutti gli algerini?
No, certo che no. Sarà al meglio un non evento, che passerà totalmente sotto silenzio al di fuori dalla Chiesa cattolica. A causa di un anacronismo che elude la Storia, viene ancora riferita al cardinale Lavigerie l’immagine di un proselita che cercava solo di convertire i musulmani, soprattutto i bambini. E anche se esiste ancora una infinita riconoscenza verso i frati Bianchi e le suore Bianche da parte degli algerini che hanno studiato nelle loro scuole, non viene fatto il nesso con il loro fondatore. Bisogna studiare attentamente la vita di questo prelato per capire il suo percorso eccezionale e il suo impegno per migliorare la vita di quelli che, allora, erano chiamati gli «indigeni»: lo faceva nello spirito del Vangelo ma non per convertirli a tutti i costi.
Lei ha vissuto a Gerusalemme e nella Striscia di Gaza. I cristiani, come i palestinesi, stanno vivendo un momento drammatico. Perché la comunità internazionale non riesce a neutralizzare la violenta operazione militare e le azioni di rappresaglia portati avanti dal governo israeliano contro i civili palestinesi?
In effetti, il fatto di aver vissuto a Gerusalemme e di essere stato varie volte a Gaza e in tutta la Cisgiordania per portare alle popolazioni acqua e aiuti basilari con la Caritas di Gerusalemme, durante la prima intifada tra il 2000 e il 2002, mi ha permesso di vedere da vicino l’ingiustizia quotidiana vissuta da tutto il popolo palestinese. La comunità internazionale assiste impotente a crimini contro l’umanità compiuti da uno Stato e questo è terribile. L’insieme degli israeliani non è responsabile, perché ci sono molti oppositori a questa politica e neanche tutti gli ebrei nel loro insieme ne sono responsabili. Ma lo Stato israeliano, per colpa delle sue azioni attuali, è uno Stato criminale abbastanza sostenuto da non poter essere fermato nel suo scopo di distruggere un popolo di cui una parte è cristiana, anche se questo non è il punto.
Altri Paesi vicini di Israele, come il Libano e la Siria, attraversano un periodo di instabilità e di cambiamento dopo la caduta del regime di Bachar Assad. Che futuro prevede per quest’area, culla del monoteismo?
Concordo con lei che tutta la regione conosce in maniera duratura una destabilizzazione dovuta a manipolazioni politiche e religiose di questa situazione, di cui l’Europa è, in parte, storicamente responsabile. Ma oggi la crisi ha una dimensione globale ed è difficile intravedere il futuro di un’area del mondo indipendentemente dal resto. Sono cresciuto con il sogno che le grandi istituzioni internazionali potessero portare la pace nel pianeta. Questo sogno è andato in frantumi davanti all’insorgenza dei nazionalismi e di un mondo in cui regna la legge del più forte, rivendicata senza remore, e che ha sostituito la morale della politica. Questo mondo ci impone di farci portatori di una «invincibile speranza» – espressione del fratello Christian De Chergé, priore dei Monaci di Tibhirine* – che abita il nostro cuore ed è la radice della nostra fede.
Per tornare all’Algeria, lei è francese ma ha anche la nazionalità algerina che il presidente Abdelmadjid Tebboune le ha concesso con decreto due anni fa. Questo Paese importante per la stabilita del Maghreb e del Sud del Mediterraneo sta vivendo una polemica diplomatica con Parigi. Crede che questa nazione giovane e dinamica, che esce dal decennio nero del terrorismo, ma la cui economia è promettente, potrebbe svolgere un ruolo di ponte tra l’Occidente e il Mondo islamico al di là del suo passato di ex colonia francese, che non ha ancora perdonato?
La mia profonda convinzione è che sussiste tra Francia e Algeria una relazione pari a quella esistente tra abusatore e abusato. Sappiamo (come accade anche nella Chiesa, da quando sono stati rivelati abusi sessuali nel suo interno) che questi crimini segnano le vittime durante tutta la loro vita, in tutte le loro relazioni, non solo quelle con il colpevole. E questo dura finché non avviene un vero riconoscimento dell’abuso subito. Conosco l’enorme potenziale dell’Algeria, a cominciare dalla sua gioventù, alla luce della sua recente indipendenza ma anche della composizione demografica della sua società, senza parlare di tutte le altre sue ricchezze. Questo potenziale un giorno si esprimerà in tutta la sua forza, di questo sono convinto. Ma, per giungere a questo, l’Algeria dovrà prima riconciliarsi in maniera profonda col suo passato. E questo rappresenta per me, che sono franco-algerino, un cristiano che vive nel mondo musulmano, un sogno e una lotta. La lotta della fraternità.
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