La pedagogia delle api
«Per fare un tavolo ci vuole un fiore». Così recitava il ritornello di Ci vuole un fiore, la celebre canzone per bambini di Sergio Endrigo, Luis Bacalov e Gianni Rodari. Non appena uscì, nel 1974, fu un immediato successo, divenendo uno dei refrain prediletti da tutti gli insegnanti d’Italia, ancora oggi in uso nelle nostre scuole dell’infanzia. Ma per rendere vivo il fiore, oltre che utile, mi chiedo io, che cosa serve? L’acqua, direte voi. Certamente. Un terreno fertile, certamente. Il sole, senza ogni dubbio. Eppure, il fiore (e con lui il tavolo) non esisterebbe se non ci fossero dei piccoli esserini ronzanti che da lui traggono nutrimento per sé e per gli altri.
Lo avrete capito, sto parlando delle api, il simbolo per eccellenza dell’operosità. Un semplice insetto senza il cui lavoro, tuttavia, il nostro mondo non esisterebbe. Quella delle api è una storia cara anche al professore e pedagogista Andrea Canevaro che, nel suo ultimo libro Fuori dai margini (Erickson, 2017), individua nella vita delle api un esempio fondamentale che pone in luce una altrettanto fondamentale differenza, associabile alla disabilità. Si tratta della «differenza tra operosità e terapia occupazionale».
«Spesso nel contesto lavorativo la persona con disabilità fa terapia occupazionale. La si ritrova – spiega il professore – a fare dei semplici oggetti-manufatti, spesso anche in maniera poco professionale, che la gente acquista non per la qualità del prodotto, ma perché fatti da una persona disabile». «Le api – aggiunge Canevaro – sono invece esempio di operosità. Sono una “squadra” dove ognuno ha un proprio ruolo ben definito, anche a seconda delle caratteristiche fisiche dell’insetto, e così producono un buon miele che la gente acquista perché buono, non perché socialmente utile…».
Un concetto importante, quello che individua il pedagogista, che porto avanti anch’io da diversi anni. Molte volte si spingono le persone con disabilità a buttarsi in attività, come si suol dire dalle mie parti, «alla viva il parroco», senza offesa naturalmente per i parroci. Ciò vuol dire che non basta la buona volontà, sul lavoro ci vuole professionalità. La cosa interessante è che Canevaro rivolge queste parole non tanto alle figure di riferimento della persona con disabilità (educatori, insegnanti, famiglie e via dicendo), ma anche e soprattutto ai disabili stessi. Uno spirito che condivido, privo di buonismi e che chiama in causa la responsabilità e, di conseguenza, il valore del singolo.
Le api, anche se finalizzano il proprio lavoro alla regina, mantengono, infatti, pur sempre la loro identità. Ecco allora che avere un ruolo diventa importante all’interno di un gruppo di lavoro. Ma è un ruolo che, come ribadisce il docente, non sarebbe produttivo senza quello degli altri. Ognuno porta il suo piccolo pezzo, ognuno con le proprie caratteristiche e abilità, questo è il lavoro di squadra. Fare bene il proprio piccolo pezzo è, invece, professionalità e, potremmo aggiungere, «pedagogia della reciprocità». Imprecare contro il cielo, piangersi addosso, cari disabili, è inutile e accresce il senso di solitudine. Dietro a ogni difficoltà, però, sottolinea Canevaro, e io con lui, c’è un cambiamento, per cui, poche chiacchiere, su le maniche e darsi da fare per ampliare in prima persona la cultura dell’inclusione!
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