La pedagogia delle api

Nel lavoro non basta la buona volontà, ci vogliono gioco di squadra e professionalità. Solo così risultato e valorizzazione personale sono garantiti.
03 Aprile 2018 | di

«Per fare un tavolo ci vuole un fiore». Così recitava il ritornello di Ci vuole un fiore, la celebre canzone per bambini di Sergio Endrigo, Luis Bacalov e Gianni Rodari. Non appena uscì, nel 1974, fu un immediato successo, divenendo uno dei refrain prediletti da tutti gli insegnanti d’Italia, ancora oggi in uso nelle nostre scuole dell’infanzia. Ma per rendere vivo il fiore, oltre che utile, mi chiedo io, che cosa serve? L’acqua, direte voi. Certamente. Un terreno fertile, certamente. Il sole, senza ogni dubbio. Eppure, il fiore (e con lui il tavolo) non esisterebbe se non ci fossero dei piccoli esserini ronzanti che da lui traggono nutrimento per sé e per gli altri.

Lo avrete capito, sto parlando delle api, il simbolo per eccellenza dell’operosità. Un semplice insetto senza il cui lavoro, tuttavia, il nostro mondo non esisterebbe. Quella delle api è una storia cara anche al professore e pedagogista Andrea Canevaro che, nel suo ultimo libro Fuori dai margini (Erickson, 2017), individua nella vita delle api un esempio fondamentale che pone in luce una altrettanto fondamentale differenza, associabile alla disabilità. Si tratta della «differenza tra operosità e terapia occupazionale».

«Spesso nel contesto lavorativo la persona con disabilità fa terapia occupazionale. La si ritrova – spiega il professore – a fare dei semplici oggetti-manufatti, spesso anche in maniera poco professionale, che la gente acquista non per la qualità del prodotto, ma perché fatti da una persona disabile». «Le api – aggiunge Canevaro – sono invece esempio di operosità. Sono una “squadra” dove ognuno ha un proprio ruolo ben definito, anche a seconda delle caratteristiche fisiche dell’insetto, e così producono un buon miele che la gente acquista perché buono, non perché socialmente utile…».

Un concetto importante, quello che individua il pedagogista, che porto avanti anch’io da diversi anni. Molte volte si spingono le persone con disabilità a buttarsi in attività, come si suol dire dalle mie parti, «alla viva il parroco», senza offesa naturalmente per i parroci. Ciò vuol dire che non basta la buona volontà, sul lavoro ci vuole professionalità. La cosa interessante è che Canevaro rivolge queste parole non tanto alle figure di riferimento della persona con disabilità (educatori, insegnanti, famiglie e via dicendo), ma anche e soprattutto ai disabili stessi. Uno spirito che condivido, privo di buonismi e che chiama in causa la responsabilità e, di conseguenza, il valore del singolo.

Le api, anche se finalizzano il proprio lavoro alla regina, mantengono, infatti, pur sempre la loro identità. Ecco allora che avere un ruolo diventa importante all’interno di un gruppo di lavoro. Ma è un ruolo che, come ribadisce il docente, non sarebbe produttivo senza quello degli altri. Ognuno porta il suo piccolo pezzo, ognuno con le proprie caratteristiche e abilità, questo è il lavoro di squadra. Fare bene il proprio piccolo pezzo è, invece, professionalità e, potremmo aggiungere, «pedagogia della reciprocità». Imprecare contro il cielo, piangersi addosso, cari disabili, è inutile e accresce il senso di solitudine. Dietro a ogni difficoltà, però, sottolinea Canevaro, e io con lui, c’è un cambiamento, per cui, poche chiacchiere, su le maniche e darsi da fare per ampliare in prima persona la cultura dell’inclusione!

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

Data di aggiornamento: 03 Aprile 2018

1 comments

31 Gennaio 2021
Ho letto il libro del dott. Canevaro, persona che stimo e ammiro per la brillantezza e la lungimiranza di pensiero nel contesto socio-educativo. Tuttavia sento come nota stonata l'utilizzo in tono dispregiativo o quantomeno negativo del termine "terapia occupazionale". Sono un terapista occupazionale e ritengo che quanto sostenuto dal dottor Canevaro sia riferibile ad una concezione desueta della terapia occupazionale, purtroppo sostenuta da una tradizione ancora in voga in molti istituti e strutture per persone con disabilità. La terapia occupazionale che certamente in molti contesti ha assunto il significato di "far fare i lavoretti alle persone per far passare il tempo" è oggi qualcosa di completamente diverso e contrariamente da quanto sostenuto da Canevaro si inserisce con basi scientifiche e modelli teorici molto sviluppati nella logica ICF della partecipazione e in un ottica più ampia nel concetto di enablement ovvero mettere la persona nelle condizioni di esprimere una propria abilità per partecipare e quindi essere operosi in un contesto. La terapia occupazionale odierna è esattamente orientata nella logica dell'operosità in quanto agisce sulla persona, sull'attività e sull'ambiente andando a implementare, sostituire o modificare quelle componenti che limitano la partecipazione (l'operosità) della persona con disabilità. È vero molte strutture dicono di fare "terapia occupazionale" ma facciamo attenzione, quella non è la terapia occupazionale oggi riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale e non è la terapia occupazionale che si insegna nei corsi di laurea per diventare terapista occupazionale.
Elimina
di Francesco

Lascia un commento che verrà pubblicato