La vita è un’aritmia
L’aritmia non è solo un ritmo cardiaco irregolare, ma è la pulsazione imprevedibile e sconnessa di una vita confrontata al male, all’errore, alla cattiveria, alla follia. Siamo in Russia. Un infermiere lavora su un’ambulanza, visitando domiciliarmente a ritmi frenetici i malati che hanno chiamato il numero telefonico d’emergenza. Bisogna trovare l’indirizzo giusto, fare la diagnosi corretta, strappare il paziente ai rischi clinici più gravi e poi portarlo in ospedale. Ma il nuovo dirigente del servizio non è soddisfatto e chiede una prestazione più accelerata: 20 minuti per fare quello che si può e poi passare il caso ad altri (medici di famiglia, ambulanze meno equipaggiate, un pronto soccorso disponibile). Non solo. Bisogna continuamente fare rapporto e, se il centralino lo comanda, la prestazione va interrotta per raggiungere un caso più urgente. L’équipe protesta: esigenze economiche o organizzative non possono mutilare l’efficienza di professionisti preparati e affiatati.
L’infermiere trentenne Oleg non capisce queste intrusioni burocratiche. Ha ben altri problemi. Oleg, alcolista compulsivo come i suoi compagni di squadra, ha logorato la sua vita affettiva, trascurando vistosamente la sua compagna Katya, assunta nello stesso pronto soccorso come medico d’emergenza a pieno titolo. Katya se ne lamenta e minaccia la separazione. Oleg reagisce in modo dissociato: a volte sembra sordo ai rimproveri e affoga le sue nevrosi nelle chiassose serate a base di vodka con gli amici dell’ambulanza. Altre volte assume l’aspetto di un cane bastonato, chiede perdono alla compagna («Sono un perdente; fai bene a odiarmi»), promette una vita più moderata, si impegna a starle vicino.
Come nel traffico
Boris Khlebnikov, il regista del film Arrhythmia (Russia-Finlandia-Germania 2017) simboleggia questi blocchi, incomprensioni e impasse umani con l’immagine degli ingorghi stradali, che bloccano l’ambulanza nelle vie dissestate dei sobborghi russi. Le corsie sono strette, sporche, colme di detriti, invase da un traffico disordinato che allude a una sconnessa rete sociale, a una convivenza brutale, disagevole, rischiosa. Guidare l’ambulanza è come sbattere contro pregiudizi politico-culturali o scivolare da capo in un’incostante, sconnessa, paralizzante relazione a due. Il lungometraggio ha una trama che sale e scende come il tracciato di un elettrocardiogramma, ha un pathos che urta e consola, ferisce e commuove. Nel film non tutto tiene. Non tutto è plausibile. Chi guarda viene esposto al ritmo imprevedibile di un documentario realista, ai movimenti incerti di una videocamera traballante, alla luce naturale di un autunno inoltrato.
C’è, nella pellicola, una lezione sul cinema come arte che cura e assieme aggredisce. Si va al cinema per necessità, come si chiama un’ambulanza quando i disturbi ci spaventano. C’è anche una lezione teologica. Oleg è pieno di contraddizioni. Ma a volte vorremmo un Dio come lui, che si prendesse cura di noi, subito e senza riserve. Vorremmo anche una madre nei cieli, che attendesse con pazienza la nostra conversione e il nostro ritorno da lei, come fa Katya col suo uomo. Una compagna tenera e comprensiva, capace di perdonare, ma assieme ferma e coerente – per quanto può – nella sua alleanza. Una donna appassionata di noi, disponibile ad aiutarci, a convivere nello stesso piccolo appartamento ancora per qualche giorno, mentre cerchiamo una casa davvero nostra.
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