La guerra annunciata
Il primo annuncio di una più o meno imminente invasione russa dell’Ucraina è comparso il 30 ottobre sul «Washington Post». E gli allarmi, fomentati soprattutto dalla stampa anglosassone, si sono poi succeduti con ritmo quotidiano e con toni sempre più accesi. Per quasi quattro mesi, quindi, noi europei abbiamo vissuto con lo spauracchio di una guerra disastrosa combattuta accanto a noi, e forse non solo. Come prevedere gli sviluppi di un conflitto che, inevitabilmente, avrebbe potuto coinvolgere anche altri Paesi, Ue o non Ue, dalla Polonia ai Baltici, dalla Bielorussia alla Moldavia, in omaggio alle alleanze, agli interessi strategici, alle speculazioni economiche, ai fanatismi o anche semplicemente al caso?
Una crisi che, al di là delle preoccupazioni immediate, ha avuto aspetti anche molto sconcertanti, che rivelano tutti i limiti e i cinismi della politica internazionale. Il primo è che da parte occidentale essa è stata descritta come improvvisa, inattesa, quasi fosse il pericoloso capriccio di una dirigenza russa ormai uscita di testa. Qualunque sia il giudizio che si vuol dare delle politiche del Cremlino, non si capisce nulla di quanto sta avvenendo se non si mette la questione in prospettiva. Bisogna tornare al febbraio 2007 quando Vladimir Putin, alla Conferenza internazionale sulla Sicurezza di Monaco di Baviera, fece un discorso assai duro, in cui in sostanza disse che la Russia non avrebbe mai accettato un «mondo unipolare», ovvero la leadership globale di un’unica superpotenza: gli Usa. E aggiunse che tale «esclusiva» sarebbe stata immorale ma anche impossibile da gestire dal punto di vista economico come da quello militare.
Un avvertimento? Una minaccia? Certo non solo parole. Nel 2008 la Russia ha colpito con il suo esercito la Georgia con cui era in contrasto per l’Ossetia del Sud (regione russofona e filorussa che ambiva all’indipendenza). Nel 2014 Mosca ha reagito alla cacciata del presidente ucraino filorusso Yanukovich riannettendo la Crimea e fomentando il separatismo del Donbass. Nel 2015 è intervenuta in Siria a fianco di Bashar al-Assad. Due anni fa si è insediata in Libia a sostegno del generale Haftar e in Venezuela ha aiutato il presidente Maduro. Sempre, in qualche modo, cercando di contrastare l’influenza e il predominio Usa. Contesa che, intanto, proseguiva anche sul piano diplomatico, con una lunga serie di reciproche disdette di trattati sul disarmo e sul controllo degli armamenti. Quel che avviene oggi, dunque, non è che l’ultima conseguenza di un confronto di lunga data, che col tempo si è fatto sempre più aspro. E che si è avvicinato al punto di non ritorno perché l’Ucraina è sulla soglia della Russia, con cui divide un confine di 1.600 chilometri.
Ucraina in ginocchio
Parlando invece di allarmi e di cinismo, Russia e Usa hanno fatto salire la tensione a mille, la prima con manovre militari che sapevano di mobilitazione, l'altra lanciando allarmi sempre più isterici che, uno dopo l’altro, si sono rivelati infondati. In mezzo, il presidente Volodimir Zelensky e gli altri dirigenti ucraini che, giorno dopo giorno, hanno cercato di smorzare la tensione e di far capire che l’invasione non era alle porte. Il 14 febbraio Zelensky ha persino giocato la carta dell’ironia, dichiarando festa nazionale il 16 febbraio, giorno in cui, secondo certe fonti, i russi avrebbero attaccato. Questo perché il continuo allarme stava affondando l’Ucraina, prima e forse più di qualunque invasione.
L’Ucraina, infatti, già in condizioni «normali» è, con la Moldavia, il Paese più povero d’Europa. Ha 6 milioni di migranti economici che, con le loro rimesse, «producono» il 10 per cento del Prodotto interno lordo del Paese. Con la minaccia della guerra la valuta locale (hrivna) è crollata, i buoni del Tesoro ucraino sono stati meno richiesti, il costo della vita è salito, gli investitori esteri hanno riportato a casa i soldi (12,5 miliardi di dollari in due settimane, secondo lo stesso Zelensky), i famosi «oligarchi» che controllano i pilastri economici del Paese se ne sono andati all’estero con parte dei loro capitali, persino ventitré deputati del Parlamento monocamerale hanno scelto un comodo rifugio provvisorio in Europa. In poche parole, l’Ucraina è stata trattata da Russia e Usa come la Siria, la Libia, la Georgia o uno qualunque dei Paesi in cui di volta in volta i due grandi scelgono di regolare i propri contrasti.
Resta da chiedersi: dopo tre mesi e mezzo di crisi mondiale e di minacce di guerra è stato almeno risolto qualcuno dei problemi che hanno generato il caos? Certo, la tensione era calata e i mercati ne avevano subito preso atto: le Borse erano tornate a crescere, il cambio della hrivna ucraina e del rublo russo rispetto a euro e dollaro era migliorato, il prezzo del gas era calato. Ma la risposta alla domanda fondamentale resta «no». Per due ragioni. La prima è la contesa per la supremazia globale. In questa corsa non esistono secondi e terzi posti: o il primo o nulla. Gli Usa, che da un secolo sono la potenza dominante, non possono permettersi un riavvicinamento tra l’Europa della tecnologia e dell’industria e la Russia delle materie prime. Soprattutto nel momento in cui sono impegnati a respingere la sfida crescente della Cina. Contenere la Russia, meglio ancora tenerla in uno stato di inferiorità, è tuttora una priorità. L’esatto contrario per la Russia, che sui mercati europei fa ottimi affari (il 40 per cento del gas che consumiamo ce lo vende Mosca) e ha bisogno di spazio a Ovest per non doversi appiattire sulla Cina.
La seconda è la contesa in Europa. Nel 1991, quando l’Urss crollò, la Russia pensò di poter continuare a esercitare una certa influenza su quello che i suoi politici chiamavano «estero vicino», in pratica sui Paesi usciti dall’Urss. Questo le è riuscito a Est, nell’Asia Centrale. Ma a Ovest no. Piuttosto in fretta i tre Paesi baltici, la Polonia, la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Slovacchia si sono integrati (a diversi livelli e con diversi risultati) nel sistema occidentale, sia attraverso la Nato sia attraverso la Ue. E persino la Bielorussia, l’unico Paese sul lato Ovest dell’ex Urss che non abbia mai provato a entrare nella Ue o nella Nato, è stata in passato piuttosto renitente alle direttive di Mosca. Questo è successo per due ragioni: l’Europa, e l’Occidente in genere, offrono una prospettiva di benessere con cui la Russia non può competere. E poi perché quasi tutti questi Paesi hanno sofferto in vario modo, nel ’900, di enormi soprusi sovietici: carestie, invasioni, repressioni. Quindi, oltre alle ragioni per andare verso Occidente, hanno una montagna di rancori che li spingono lontano dalla Russia. Che a sua volta proprio non riesce ad adattarsi alla nuova situazione, che appunto legge come un’avanzata degli Usa e della Nato e non come una libera scelta di nazioni finalmente indipendenti.
Prigionieri di interessi e rancori
Su tutto questo, trent’anni dopo il crollo dell’Urss, il lavoro è ancora tutto da fare. Gli Usa, per le ragioni di cui si diceva, non hanno interesse a favorire una distensione tra la Russia e i Paesi dell’Europa dell’Est. E la Russia e questi Paesi non ne sono capaci, sono tuttora prigionieri della loro storia comune. Resta un fatto indubitabile, che dovrebbe essere la grande lezione di questi mesi di tensione e di paure: l’Europa non è più al riparo rispetto alle grandi tensioni mondiali. Non siamo più l’isola felice della neutralità e nemmeno il grande ombrello militare americano ci può tenere al riparo. La guerra, che alla fin fine è tra Russia e Usa, si prepara a essere combattuta in un’Europa che non è riuscita a essere protagonista nemmeno quando, in apparenza, si decidevano le sue sorti. E anche questo, ammettiamolo, è un problema grosso.
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