La polveriera della Terra Santa
Il professor James L. Gelvin è docente di Storia all’Università della California, a Los Angeles. Ha insegnato anche al MIT di Boston e ad Harvard. È uno dei maggiori esperti di Medio Oriente a livello internazionale. Di recente, Einaudi ha pubblicato un’edizione ampliata del suo saggio Storia del Medio Oriente moderno.
Msa. Perché non si riesce ad uscire dalla spirale di violenza del conflitto israelo-palestinese?
Gelvin. A partire dall’agosto del 2020, Israele ha «normalizzato» le relazioni con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan. L’amministrazione Trump si era vantata del fatto che gli accordi sottoscritti avrebbero portato la pace nella regione. Tuttavia, nella primavera scorsa, ancora una volta Israele e Hamas sono entrati in conflitto. Perché? Il motivo per cui i cosiddetti «Accordi di Abramo» e i successivi trattati tra Israele e gli stati arabi non hanno portato alla pace, sta nel fatto che, alla radice, il conflitto non riguarda Israele e gli stati circostanti, ma riguarda israeliani e palestinesi. Fino a quando la questione israelo-palestinese non sarà risolta, il conflitto continuerà, indipendentemente dal numero di trattati che Israele firmerà con i suoi vicini.
In Palestina assistiamo a quello che alcuni hanno definito uno «scontro di civiltà» e di differenti opportunismi politici. Lei vede una soluzione?
Prima di tutto, non esiste uno «scontro di civiltà». Era un’idea stupida inventata dopo la fine della guerra fredda, quando c’era chi faceva a gara per trovare il successivo conflitto che avrebbe sostituito quello tra Stati Uniti e Unione Sovietica. L’idea ha preso piede dopo gli eventi dell’11 settembre 2001 quando è stata utilizzata (erroneamente) come cornice per rispondere alla domanda: «Perché ci odiano?». Alla radice, il conflitto è tra due nazionalismi opposti: quello di Israele e quello dei palestinesi. Sia i palestinesi che gli ebrei che si sono insediati in Palestina (aderenti al sionismo) vogliono il controllo esclusivo di tutto o di parte del territorio compreso tra il Mare Mediterraneo e il fiume Giordano. Il fatto che il conflitto sia tra due nazionalismi e non tra due gruppi religiosi, indica che non c’è «scontro di civiltà». È un conflitto semplice, ordinario, nazionalista, come il conflitto nell’Irlanda del Nord o tra gli stati dell’ex Jugoslavia. L’unica cosa che rende unico il conflitto israelo-palestinese è che sta andando avanti più a lungo di qualsiasi altro conflitto nazionale in corso. Se è vero che alcuni ebrei esprimono il loro nazionalismo usando un discorso religioso («Dio ha fatto un patto con gli ebrei per darci tutto questo territorio»), e alcuni nazionalisti palestinesi – Hamas – sostengono la stessa cosa («la Palestina è un dono religioso dato ai musulmani»), la maggior parte di loro non si esprime in questi termini. E il fatto che alcuni lo facciano, non cambia la natura del conflitto. Molte rivendicazioni nazionalistiche usano la religione come indicatore per definire la propria comunità. Il nazionalismo indù in India lo fa. Così come i nazionalisti cristiani negli Stati Uniti («l’America è, e deve rimanere una nazione cristiana»). Questo non fa di loro dei movimenti religiosi: essi rimangono dei movimenti nazionalisti, non dei movimenti teologici.
Il conflitto ufficiale tra Israele e palestinesi nasconde una guerra sotterranea per l’accesso alle risorse idriche e alle terre coltivabili. La Palestina sembra un laboratorio del mondo futuro in cui si combatteranno guerre per la sopravvivenza.
Lei ha assolutamente ragione. Faccio un esempio: nel 1967 Israele ha occupato la Cisgiordania e Gaza, tra gli altri territori. Israele è stato rapido nell’integrare l’economia palestinese e la rete elettrica con la propria. Come risultato di questa politica, l’economia palestinese somigliava a quella di un territorio colonizzato. L’allocazione delle risorse idriche è un altro esempio di come Israele abbia beneficiato dell’occupazione e dei successivi accordi con l’Anp, l’Autorità nazionale palestinese. In Medio Oriente si trovano alcuni dei luoghi più aridi della Terra, quindi l’acqua è preziosa. Eppure, nel 2016, Israele utilizzava l’87 per cento dell’acqua della falda acquifera di montagna che condivide con i palestinesi. Secondo il «Memorandum di Sharm el-Sheikh» del 1999 siglato da Israele e Anp, gli israeliani avevano diritto al 71 per cento dell’acqua di quella falda acquifera. Israele estrae circa il 66 per cento dell’acqua in una seconda falda, quella costiera, che condivide con Gaza, i cui residenti estraggono il 23 per cento. Il resto va in Egitto. E Gaza è uno dei territori più densamente popolati della Terra. La guerra del 1967 fu essa stessa, in parte, una «guerra dell’acqua». Può essere fatta risalire agli scontri tra Israele e la Siria per l’assegnazione delle acque del fiume Giordano nei primi anni ’60 del secolo scorso. Israele ha preso le alture del Golan dalla Siria, in larga misura per controllare il bacino idrico del fiume Giordano, insieme ai fertili terreni agricoli.
Oggi quanto conta l’Autorità nazionale palestinese e quanto Hamas? Chi ha più potere nell’orientare le rivendicazioni dei palestinesi?
L’Autorità nazionale palestinese è stata istituita dall’Accordo di Oslo tra Israele e i palestinesi per agire come un governo dei palestinesi in via di formazione. Secondo l’accordo, sarebbe stato determinato da un negoziato il fatto che quel governo avesse giurisdizione su uno stato indipendente. L’accordo, infatti, è stato utile agli israeliani perché ci sono vaste aree della Cisgiordania che l’Autorità nazionale palestinese controlla per conto di Israele. L’organizzazione di Hamas è emersa nel 1987. Ha vinto le elezioni legislative nel 2006 e, dopo un breve ma sanguinoso confronto con il più grande partito della Cisgiordania, Fatah, ha preso il controllo di Gaza. Quindi, con l’Autorità nazionale palestinese/Fatah al controllo della Cisgiordania, e Hamas al controllo di Gaza, il movimento nazionale palestinese si è diviso per la prima volta da quando la maggior parte del mondo ha riconosciuto l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina come «l’unico, legittimo rappresentante del popolo palestinese». Ogni tanto ci sono tentativi di avvicinare le due anime palestinesi, ma finora non hanno avuto successo. Come una coppia in crisi, sposata da tanti anni, passano metà del loro tempo a parlare di riconciliazione, e l’altra metà per trovare il modo di farsi fuori l’un l’altro. Inoltre, né l’Anp né Hamas godono di una grande legittimazione: non c’è stata un’elezione per il presidente dell’Anp in quindici anni, e l’attuale presidente, Mahmud Abbas ovvero Abu Mazen, è così vecchio e debole che la grande domanda è: chi lo sostituirà quando sarà morto? Il motivo per cui Hamas è stato coinvolto nel recente conflitto con Israele è stato quello di proporsi come il protettore dei palestinesi e di Gerusalemme in un momento in cui l’economia di Gaza è in una situazione disastrosa. In questo modo Hamas ha voluto ricordare ai palestinesi che era stata l’Anp, e non Hamas, ad aver sovrinteso all’inasprimento delle occupazioni da parte israeliana.
Quali Paesi del Medio Oriente hanno maggiore interesse a soffiare sul fuoco delle tensioni tra Israele e i palestinesi. E perché?
Il Medio Oriente è attualmente diviso in due fazioni: i Paesi che sono per lo status quo, guidati dall’Arabia Saudita e che comprendono gran parte del mondo arabo, e quelle entità che sono insoddisfatte dello status quo, come l’Iran e l’organizzazione di Hezbollah in Libano. Questa è la dinamica più importante della regione. In fondo, il conflitto israelo-palestinese non è particolarmente importante nel Medio Oriente di oggi. Ecco perché Paesi come gli Emirati Arabi Uniti possono normalizzare le loro relazioni con Israele, mentre altri, come l’Arabia Saudita, lavorano più tranquillamente con Israele che fornisce ai membri della fazione anti-iraniana un cuscinetto strategico, tecnologia e un accesso privilegiato agli Stati Uniti.
Lei crede che il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, possa infilarsi in questa contesa, come ha fatto in Libia?
È fuor di dubbio che sia la Turchia che la Russia saranno direttamente coinvolte nel conflitto israelo-palestinese, se non altro per amplificare le azioni israeliane contro i palestinesi e, nel caso della Russia, per utilizzare il proprio voto al Consiglio di sicurezza dell’Onu. La disputa è periferica rispetto ai loro interessi nella regione: per la Turchia, tali interessi includono la Siria, i curdi e i giacimenti di gas del Mediterraneo; per la Russia è principalmente la Siria.
Il nuovo premier israeliano, Naftali Bennett, ha una maggioranza piuttosto variegata e fragile. Cosa potrà accadere nei prossimi mesi? E che errori ha commesso il premier uscente Benjamin Netanyahu in 12 anni di potere incontrastato?
Come lei afferma, l’attuale governo di Israele è fragile, e ha un rappresentante di un partito intransigente, un rappresentante di un partito centrista (che non risponde alle domande sul futuro dei territori in modo inequivocabile), e stando in disparte c’è un rappresentante di un partito israelo-palestinese. Quando si tratta del conflitto israelo-palestinese e del futuro dei territori, il governo è paralizzato. Il premier Bennett ha già annunciato che si concentrerà sulle questioni interne. Anche gli Stati Uniti hanno sospeso i loro sforzi di mediazione. Quando il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, si è recato in Israele, ha parlato di garantire il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, e di fornire aiuti a Gaza. Quanto ai negoziati sul futuro dei territori palestinesi, ha affermato che durante quel viaggio si sarebbe concentrato su quelle cose che potrebbero gettare le basi per alcuni futuri negoziati. Sembra che anche gli americani sappiano che spingere le due parti a negoziare è una perdita di tempo, soprattutto perché il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, considera al centro del suo mandato la sua agenda interna: fermare il Covid, sostenere l’economia, finanziare le infrastrutture. Non vuole sprecare capitale politico sulla questione Israele-Palestina, così come fece il presidente Obama.
In un mondo globalizzato e omologato da internet nei gusti, nelle tendenze, nella tecnologia, nei consumi, non pensa che le giovani generazioni di arabi ed ebrei possano superare più facilmente la rigidità delle generazioni precedenti?
È facile attribuire la responsabilità a Internet, ai social media, ai like. Anche l’introduzione del telegrafo, dei viaggi aerei e della televisione sembrava promettere l’avvento di un mondo più pacifico, mano a mano che i popoli si sarebbero conosciuti e capiti. Ma questo non è mai avvenuto, ovviamente. Ci ricordiamo quando la rivolta in Egitto del 2011 fu definita la «Rivoluzione di Twitter»? I social media non obbligano le persone ad agire in alcun modo specifico. Forniscono loro uno strumento per organizzare azioni che erano già inclini a eseguire. Durante le rivolte arabe del 2010-11, gli attivisti usarono i social media per mobilitarsi, ma anche i governi a cui gli attivisti si opponevano, e chi sosteneva quei governi, utilizzarono internet. Le nuove generazioni di arabi ed ebrei sfruttano la tecnologia per entrare in contatto l’uno con l’altro. Ma la sfruttano anche per incitare al conflitto tra loro, e per ignorarsi a vicenda.
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