Dogon, dramma infinito
Amadou Guindo ha lasciato guarire le sue ferite. Poi ha gettato un ultimo sguardo al suo villaggio, Kourou, distrutto dalle fiamme. E si è messo in marcia. Insieme al vecchio padre, alla moglie e ai tre figli, ha percorso oltre 700 chilometri verso sud ovest, alla ricerca di una terra in cui poter seppellire i ricordi di una guerra che molti dogon, come lui, considerano ormai perduta. E ricominciare.
Il vecchio capo malinké li ha accolti, stremati dal lungo viaggio, nella casa sacra del villaggio di Nanya Kenyeba, ai confini della riserva di Kenyebaoule. Sdraiato sulla sua antica pelle di leone, il bastone dalla testa di serpente saldamente in pugno, ha ricordato loro un’antica leggenda, che predice il ritorno dei dogon nel Pays Mandé, la loro terra ancestrale, abbandonata nel XII secolo per non piegarsi all’islam. Ora, quella profezia si sta avverando. Da quando la frequenza e l’intensità degli attacchi del Sigs (Stato islamico nel grande Sahara) contro i villaggi dogon sono aumentate, centinaia di famiglie hanno abbandonato la falesia del Bandiagara e raggiunto Nanya Kenyeba. Altre sono andate a ingrossare le fila dei 350 mila sfollati interni che oggi annaspano nel caldo torrido dei campi profughi sorti nelle periferie della capitale e dei maggiori centri abitati. Ma non è solo la regione nord orientale del Mali a essere sotto attacco. La zona rossa, ovvero la zona che risulta a rischio di incursioni e di attentati da parte di milizie jihadiste, si estende ormai a 360 gradi intorno alla capitale, Bamako.
L’inizio del conflitto
Secondo Bréma Ely Dicko, ricercatore e capo dipartimento della facoltà di Sociologia e Antropologia dell’Università di Scienze umane e Lettere di Bamako, le cose non sono destinate a migliorare: «Possiamo dire che tutto in Mali sia iniziato nel 2012, con il colpo di Stato militare che ha portato al rovesciamento del presidente Amadou Toumani Touré.
Nello stesso tempo, il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla, gruppo indipendentista del Nord del Mali) ha stretto un’alleanza con due gruppi jihadisti, Aqmi (Al Qaeda au Maghreb Islamique) e Mujao (Movimento per l’unicità e la Jihad in Africa Occidentale). In tre giorni queste milizie hanno occupato le regioni del Nord, Timbuktù, Gao, Kidal, dichiarandone l’indipendenza, per avanzare sulla capitale Bamako. Il governo di transizione ha chiesto l’aiuto militare della Francia, che ha risposto inviando un contingente capace di fermare le forze insorgenti nel centro del Paese. Ma da quel momento, la situazione è precipitata. Più diventa consistente l’impegno militare di potenze straniere, più l’insicurezza si estende a nuove aree comprese Bamako e le province del Sud».
Adama Arama viveva a Ségé, non lontano da Bankass. «Il mio villaggio è stato attaccato all’alba dallo Stato islamico per il grande Sahara. Oltre 200 motociclette con miliziani a bordo. Abbiamo cercato di difenderci. Nella battaglia ho perduto mio padre e due dei miei fratelli. Il villaggio è stato bruciato e razziato: hanno portato via tutti gli animali, dato fuoco ai granai. Nella disperazione, ci siamo ricordati di quello che ci raccontavano i nostri genitori. Erano originari del Pays Mandé, come tutti i dogon, ci parlavano con grande fierezza di questa terra, delle nostre radici. E così abbiamo deciso di metterci in cammino per tornare qui, a Nanya Kenyeba, per ricominciare a vivere e dimenticare quello che è successo. Siamo arrivati undici mesi fa, quarantadue persone del mio villaggio. Poi anche i villaggi vicini sono stati attaccati, e altre persone ci hanno raggiunto».
Crisi climatica e guerre
L’esplosione del conflitto comunitario, in Mali, è la prima, drammatica conseguenza di un impoverimento costante della società civile, dovuto all’impatto della crisi climatica sui settori produttivi del Paese. Pescatori, allevatori e agricoltori, un tempo sostanzialmente complementari, sono oggi impegnati in una sanguinosa lotta per le poche risorse ancora disponibili. Un conflitto di cui gli jihadisti hanno saputo approfittare, attirando nelle proprie fila i peul, tradizionalmente dediti alla pastorizia. Bambara e dogon, agricoltori, hanno invece risvegliato i dozos, cacciatori riuniti in antiche confraternite.
Secondo Debou, 50 anni, presidente del coordinamento di Dan Na Ambassagou, una formazione paramilitare che riunisce migliaia di dozos, per lo più dogon, e combatte nella falesia del Bandiagara, il conflitto in Mali è solo apparentemente legato a questioni etniche. «L’opinione pubblica è convinta che Dan An Ambassagou combatta contro i peul. Ma questo non è un conflitto intercomunitario: se lo fosse, sarebbe stato fermato da tempo. Questo è un conflitto internazionale: in Mali combattono jihadisti che arrivano da ogni parte del mondo, c’è la missione Minusma, ci sono i francesi con l’operazione Barkhane oltre all’esercito maliano. Noi combattiamo perché rischiamo di essere cancellati, e il mondo non risponde ai nostri appelli».
A distanza di soli nove mesi dal precedente, un nuovo colpo di Stato militare – che il presidente francese Macron ha prontamente definito un colpo di Stato nel colpo di Stato – ha scosso, lunedì 24 maggio, il Paese, evidenziando l’inadeguatezza delle istituzioni maliane nel fronteggiare una crisi senza precedenti. I gruppi jihadisti controllano ormai l’80 per cento del territorio: i caschi blu della Minusma, e i soldati francesi dell’operazione Barkhane, cui si sono aggiunte le forze speciali, anche italiane, inviate nel quadro della task force Takuba, asserragliati nelle loro basi faticano a proteggere se stessi.
La terra degli avi
Per i dogon, l’unica possibilità di salvezza sembra essere il ritorno alla loro terra ancestrale. «Sono molti i motivi che ci spingono a tornare qui – spiega Esay, 30 anni, originario della falesia del Bandiagara –. Innanzitutto bisogna considerare che il Pays Mandé è la nostra terra d’origine, qui ci sentiamo a casa. I malinké sono nostri fratelli: dogon, in lingua malinké, significa appunto «piccolo fratello», apparteniamo alla stessa etnia. E poi questo è il primo villaggio del Pays Mandé ad aver lanciato un invito esplicito ai dogon, invitandoli a tornare, per fuggire le violenze e per costruire insieme un futuro diverso. Qui possiamo praticare la nostra religione senza nasconderci, qualunque essa sia. A Nanya Kenyeba ci sono due chiese, due moschee, anche gli animisti sono liberi di praticare il loro culto».
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