La guerra di Muhammad

Da quando aveva 14 anni, Muhammad Najem, oggi diciottenne, prova a fare quello che i media internazionali non vogliono o non riescono a fare: raccontare cos’è una guerra dal punto di vista di chi ne paga il prezzo.
13 Febbraio 2021 | di

Raccontare la guerra vuol dire raccontare di sogni infranti, di futuro perduto, di cose rotte. Per questo nessuno vuol sentire racconti di guerra, a meno che non ci sia una storia d’amore dentro, che riscatta lo sconquasso complessivo e restituisce alla storia individuale quel senso che nel grande scenario degli eventi non è più possibile trovare.

Raccontare l’amore in guerra è, però, il lavoro dei romanzieri e degli sceneggiatori, non dei giornalisti, e infatti sui nostri quotidiani – benché i conflitti armati nel mondo non manchino – di cronaca di guerra ce n’è ben poca. Nel mondo in cui anche il giornalismo ha come primo scopo la rassicurazione di chi legge, la guerra resta una notizia solo per chi la vive.

Per questa ragione sappiamo poco dei conflitti in Siria, dove da dieci anni è in corso una guerra civile che ha ridotto in macerie il Paese, ha fatto e continua a fare migliaia di morti. Eppure, a livello governativo non siamo senza responsabilità: l’Italia è uno dei principali fornitori di armi a tutte le parti in gioco nel Medio Oriente, soprattutto alla Turchia, e molte delle bombe che devastano le case dei siriani sono state prodotte dentro ai nostri confini. 

Tra quelle case c’è probabilmente anche quella di Muhammad Najem, un ragazzo che oggi ha 18 anni, ma che è da quando ne aveva 14 che prova a fare quello che i media internazionali non vogliono o non riescono a fare: raccontare cos’è una guerra dal punto di vista di chi ne paga il prezzo.

Armato solo del suo smartphone, ha cominciato a fotografare la realtà che aveva sotto gli occhi e a metterla su tutte le piattaforme social che glielo hanno lasciato fare.

Hanno così fatto il giro del mondo le immagini della sua scuola distrutta dai bombardamenti, della casa devastata e del quartiere di Ghouta, un sobborgo di Damasco, dove è cresciuto e avrebbe voluto continuare a farlo, se le milizie di Assad non lo avessero raso al suolo, costringendo la sua famiglia a rifugiarsi in Turchia. Muhammad non ha lo sguardo del reporter, ma quello del protagonista suo malgrado di un disastro di cui non comprende le ragioni.

«Perché?» è la didascalia più frequente dei suoi scatti sulle macerie e la modalità che preferisce per la foto è quella che tra i ragazzini nell’Occidente in pace è sinonimo di vanità: il selfie. L’effetto dell’autoritratto in uno scenario di guerra è però completamente opposto: gli occhi chiari di Muhammad nella cornice del suo Paese devastata ottengono il risultato di far ricordare a chi guarda che dentro a quegli scenari distrutti ci sono esseri umani con le loro vite, donne e uomini terrorizzati e bambini che hanno perso l’infanzia.

Muhammad twitta in un inglese che ha tutte le approssimazioni del caso, ma che rivela l’intenzione di essere ascoltato dalla comunità internazionale. Non fa scoop: sa benissimo che le foto che scatta ai suoi amici feriti in ospedale dopo i bombardamenti non sono una notizia, ma la normalità di ogni guerra.

Per lui però non c’è niente di generalizzabile in quelle immagini: non sono persone a caso, sono le sue persone care. Hanno nomi e storie che lui cerca in ogni modo di restituire, dando una dimensione personale a quelli che, visti dal resto del mondo, sarebbero solo numeri, gli stessi di ogni guerra.

La consapevolezza emerge anche dai suoi tweet, scritti con un registro che è allo stesso tempo ingenuo e spietato: «Sappiamo che ti annoiano le foto del nostro sangue, ma continueremo a fare appello a te: Assad, Putin e Khamenei hanno ucciso la nostra infanzia. Salvaci prima che sia troppo tardi. Questo è il mondo che può inviare macchine su Marte e non può fare niente per smettere di far morire le persone in guerra?». 

I giornali hanno cominciato a parlare di lui nel 2018, quando i suoi video appelli con i bombardamenti sullo sfondo hanno fatto il giro della Rete. Lo hanno chiamato «il reporter bambino», ma Muhammad è solo un ragazzino che avrebbe voluto occuparsi di tutt’altro che non la distruzione di casa sua e se è stato costretto a raccontarla è perché nessun altro lo stava facendo.

Per otto anni, invece che fare filmini delle sue imprese con lo skate, Muhammad ha ripreso quello che nessuno voleva guardare, prima che la definitiva distruzione del suo sobborgo non lo costringesse a rifugiarsi a Istanbul nel 2019. Prima di Natale ha postato alcuni scatti del suo quartiere, Ghouta, quello che ora non esiste più, con la commozione nostalgica di chi ha perduto qualcosa che non tornerà.

«Io condivido le nostre storie, la realtà del mio popolo, quello siriano, perché il mondo sia consapevole dell’orrore dei bombardamenti, della morte e della distruzione che subiamo ogni giorno». Il mondo capisce la guerra solo se sa darle il nome e il cognome di qualcuno e Muhammad istintivamente ha capito che se voleva essere ascoltato doveva dargli il suo, nella speranza che anche quello non venga dimenticato.

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Data di aggiornamento: 13 Febbraio 2021

1 comments

19 Febbraio 2021
1)perché scappare in Turchia da Damasco? Era tra i ribelli islamici che hanno portato la guerra distruttiva, questa sì dello stato siriano non certo peggiore di quello Turco, ma colpevole di aver detto no agli Stati Uniti che non possono tollerare di essere esclusi dal controllo di quell'area. Cosa ci fanno oggi le truppe Turche e soprattutto quelle americane non richieste dallo Stato tuttora legittimo, della Siria.
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di giuseppe

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