Nagorno Karabakh tra paura e speranza

Lo scorso 10 novembre è stato siglato l’accordo di pace che mette fine a venticinque anni di un sanguinoso conflitto tra Armenia e Azerbaijan, per il controllo della regione del Nagorno Karabakh.
07 Dicembre 2020 | di

Xaliq Humbetov, 50 anni, ha deciso di restare. Secondo alcuni rapporti militari, il villaggio di Magadiz è stato appena liberato. Spera di tornare alla sua casa, lasciata oltre venticinque anni fa. Per settimane ha assistito, impotente, detonazione dopo detonazione, alla distruzione dell’insediamento azero che lo accoglie, insieme ad altri millecento rifugiati, costretti dalla guerra del ’94 ad abbandonare le loro case nel Nagorno Karabakh.

L’insediamento, trentaquattro case a più piani, sorge nella periferia della città di Terter, troppo vicina alla linea del fronte per conoscere un attimo di tregua. La sua famiglia è fuggita, insieme a quelle degli altri abitanti. Sono rimasti solo in dodici, tutti uomini, accucciati tra tetti sfondati, finestre disintegrate, muri ridotti in macerie. L’artiglieria dell’esercito armeno ha bersagliato questo insediamento con sistemi missilistici tipo Grad, estremamente imprecisi: gittata di 25 chilometri circa, un margine di errore che può arrivare a un chilometro e mezzo. Impossibile stabilire con certezza il bersaglio, impossibile escludere che sarà un’abitazione civile.

Da questa cittadina hanno risposto le postazioni dell’esercito azero, impiegando lo stesso armamento: su Terter, situata a nordest della linea di un fronte che si sviluppa come un cavo elettrico per 180 chilometri, ormai vuota dei suoi ventimila abitanti, la voce metallica delle esplosioni non si è mai spenta. «Le nostre case non sono qui, sono là – dice Humbetov, indicando il Nagorno Karabakh –. Questo è solo un insediamento di rifugiati. Siamo pronti ad aspettare fino alla liberazione del Karabakh, per il futuro dei nostri figli».

La liberazione è arrivata nella notte del 10 novembre, dopo sei settimane di scontri furiosi, sancita dalla sigla di un accordo di pace che il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha definito «indicibilmente doloroso», perché conseguenza della disfatta militare di Yerevan. Siglato dal presidente Putin, da Nikol Pashinyan e dal presidente azero Ilham Aliyev, stabilisce la restituzione, da parte dell’Armenia, dei distretti di Ağdam, di Kәlbәcәr, di Laςin e dei territori cuscinetto nella regione di Qazakh, oltre a prevedere la presenza di circa duemila peacekeepers russi con base a Stepanakert.

Restano da definire i contorni del coinvolgimento di Ankara nel processo di stabilizzazione, forse riservati a tavoli successivi. La sigla dello storico accordo ha scatenato rabbiose manifestazioni di protesta in Armenia, che considera umilianti le condizioni della resa.

La guerra per il Nagorno Karabakh, negli ultimi venticinque anni è sembrata una faccenda conclusa che aveva l’inconveniente di continuare. Ufficialmente interrotta nel 1994, con un accordo di cessate il fuoco più volte violato, si è cronicizzata in un conflitto a bassa intensità che la diplomazia internazionale, tramite l’intermediazione del gruppo di Minsk dell’Osce, ha sperato stancamente di congelare. Una guerra costata la vita a oltre 30 mila persone e che ha provocato l’esodo di 800 mila azeri (che hanno abbandonato le loro case finite sotto controllo dell’Armenia) e di più di 250 mila armeni (che hanno lasciato le loro abitazioni in Azerbaijan). 

Il Nagorno Karabakh è stato, fino a oggi, un’enclave a maggioranza armena riconosciuta dalla Comunità internazionale come parte integrante dell’Azerbaijan, ma di fatto costituitasi, nel 1992, nella Repubblica indipendente dell’Artsakh, non riconosciuta a livello internazionale, legata a doppio filo all’Armenia e rivendicata dall’Azerbaijan. Il conflitto era esploso nel 1991, quando, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’Azerbaijan ottenne l’indipendenza da Mosca. Rifiutando di riconoscere l’autorità di Baku, il Nagorno Karabakh la proclamò a sua volta.

La tregua del ’94 sancì la vittoria dell’Armenia, che occupò la regione contesa, a maggioranza armena, e altri sette distretti la cui totalità degli abitanti era invece azera. Con tre risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (1993), la Comunità internazionale ha intimato all’esercito armeno di ritirarsi dalle zone occupate. Ma l’integrità territoriale dell’Azerbaijan non è mai stata ripristinata. 

Sull’escalation appena terminata, e sulla sua risoluzione, non hanno pesato solo questioni territoriali ed etniche. L’appoggio militare della Turchia ha assicurato all’Azerbaijan una notevole superiorità tattica sul campo. Un’alleanza determinata dall’esigenza di fronteggiare quello che viene considerato un comune nemico, ma anche da ragioni economiche. Tra le altre, la necessità di proteggere gli impianti dell’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyhan, attivo dal 2005, che assicura al porto turco di Ceyhan l’approvvigionamento di ingenti quantitativi di petrolio provenienti dai pozzi del mar Caspio. Un oleodotto prezioso, da un punto di vista strategico, anche per gli Stati Uniti, perché riduce la dipendenza energetica dell’Europa meridionale da Mosca.

Alla modernizzazione dell’esercito azero ha contribuito anche Israele, che considera l’Azerbaijan un interlocutore irrinunciabile in una regione sensibile come quella del Caucaso meridionale. La Russia, che non ha mai smesso di fornire armi a entrambe le parti, ha mantenuto una posizione equilibrata, premendo per il raggiungimento di un cessate il fuoco e specificando, da subito, che gli obblighi derivanti dalla sua alleanza militare con l’Armenia si limitano ai confini del Paese, escludendo quindi l’ipotesi di un suo intervento per la regione contesa.

L’Iran, inizialmente accusato di fornire armi all’Armenia, ha dichiarato ufficialmente di considerare legittimo l’intervento dell’Azerbaijan per ristabilire la propria integrità territoriale. Quanto, su questa scelta, abbia pesato la consistente minoranza turco-azera iraniana – 15 milioni di persone su una popolazione totale di 80 milioni circa – non è dato sapere. Nonostante i tentativi di attribuire una connotazione religiosa al conflitto, forse per esigenze di semplificazione, non esiste, nei fatti, alcuna prova a sostegno di questa ipotesi. A gestire il ritorno nel Nagorno Karabakh dei rifugiati interni azeri che lo vorranno, stando all’accordo, sarà l’Unhcr.

Secondo Tural Ganjaliev, presidente della comunità azera del Nagorno Karabakh e membro del parlamento nazionale di Baku, la coe­sistenza  di armeni e azeri non sarà un problema. Ma distingue tra gli armeni vissuti lì prima della guerra e i neo-insediati, migranti armeni recentemente arrivati dal Medio Oriente. Questi ultimi dovrebbero andarsene, dice Ganjaliev, mentre i vicini armeni del passato sono i benvenuti: con loro «troveremo un linguaggio comune». 

Nessuno è in grado, al momento, di quantificare i costi umani della drammatica escalation appena conclusa. Bombardamenti indiscriminati hanno martellato abitazioni civili e quartieri residenziali a Stepanakert come a Ganja, Terter e altri centri a ridosso del fronte. Secondo il Cremlino, oltre  5 mila persone, tra civili e militari, hanno perso la vita.

 

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Data di aggiornamento: 07 Dicembre 2020
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