Quel terribile amore per la guerra
Potrei ritrovare articoli che ho scritto quasi quaranta anni fa. Allora volevo raccontare le guerre che attraversavano il mondo. Devo ancora interrogarmi sulle ragioni di quella «pulsione». Volevo vedere i campi di battaglia e alla fine mi ci trovai in mezzo. Guardavo all’Africa: la guerra di indipendenza dell’Eritrea; la resistenza disperata dei Saharawi all’altro capo del continente; in Mozambico, giù a Sud, arrivai durante gli anni della pace. Ma sono andato in quelle terre. Potrei riprendere in mano quelle pagine (i miei primi passi nel giornalismo): sembrano attuali, scritte in questi giorni. Sono cambiati i protagonisti (i presidenti, i generali, i soldati, le vittime civili), ma il senso è lo stesso, le ragioni «incomprensibili» e «ingiustificabili» sono le stesse. Come allora sono, viste dall’Europa, guerre invisibili ai più.
La guerra in Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia, è vietata ai giornalisti, non ci sono telecamere, non si vedono fotografie. Dal 4 novembre (forse non a caso giorno delle elezioni americane) nessuno sa cosa sta accadendo in quelle terre: 50 mila persone sono riuscite a fuggire verso il Sudan, i morti sono certamente migliaia, io ho amici cari sotto quelle bombe, non so se sono vivi o morti. A fine novembre è caduta Makallè, la capitale. La guerra, dicono gli esperti, si trasformerà in guerriglia. Sono generazioni che in Corno d’Africa si fa la guerra. Come se solo le armi potessero risolvere i contrasti. Ci si spara alla prima divergenza. I militari non hanno mai lasciato né il potere, né le pistole.
Molti anni fa, un giornalista del «The New Yorker», citato dal filosofo James Hillman, riportò una frase di un medico iracheno: «Penso alla storia del mio paese. Che altro è se non migliaia di anni di guerre e di uccisioni? Milioni di persone sono morte, i loro corpi fanno parte della terra che respiriamo». Quando vedo il paesaggio di pietre, polvere e acacie spinose del Corno d’Africa, quando incontro pastori di capre e cammelli che camminano con ciabatte ricavate da copertoni, penso che sono figli di questa tragedia immane. Sono figli del sangue. «La guerra è, in ogni epoca, una costante della dimensione umana» scrive Hillman.
Nel Sahara Occidentale (un deserto assoluto!!! Dicono che sia pieno di fosfati. Quaranta anni fa, come oggi) si combatte dopo una «tregua» durata 29 anni. Nessuno ha cercato la pace in tre decenni. Tutto è uguale. Tutto si ripete. Come nel Nord del Mozambico. Dove la guerra è endemica. I Jihādisti, da alcuni anni sono scesi nel Sud delle Afriche. La reazione è stata solo militare. L’economia criminale è ingrassata con traffici di rubini, legname, droghe, avorio. È la guerra.
Quel «terribile amore per la guerra» è un libro, vecchio di quindici anni, di James Hillman: comincia con un’immagine, citazione da un film celebre, il generale George Patton, dopo una battaglia (lo sbarco in Normandia, se non ricordo male: una guerra «giusta»), cammina fra i morti. Ecco la guerra: un paesaggio devastato e corpi dilaniati. Il generale si guarda attorno e sussurra: «Che Dio mi perdoni, come amo tutto questo». Una volta, solo una volta, ho camminato, a combattimento finito, in un campo di battaglia. Ne conosco l’odore. Mi chinai a fotografare, senza provare emozioni, un braccio carbonizzato. Dal taschino di una camicia di un cadavere, spuntava la foto di lady Diana.
Non so se riusciremo a odiare la guerra (saldata con la pandemia: che non lascia certo immune il Corno d’Africa), ma dovremmo avere il coraggio di guardare negli occhi questa maledetta pulsione alla violenza. Che Dio aiuti le mie Afriche.