Good Morning Africa!
Spesso si parla dell’Africa a sproposito, in modo superficiale. D’altronde, come scrive il saggista, storico della scienza e filosofo Michel Serres, «nessun apprendimento evita il viaggio. Sotto la direzione di una guida l’educazione spinge all’esterno».
A ciascuno di noi il compito, carta alla mano, di abbandonare le rotte tradizionali, azzardando nuovi itinerari, rischiando l’incontro con l’altro, l’estraneità o alterità che dir si voglia, nel «villaggio globale».
Anni fa, mi capitò di conoscere nel Nord Uganda un missionario laico di nazionalità americana. Viveva con la sua famiglia dalle parti di Alenga, in un territorio abitato dall’etnia dei Lango. Joe, che era un personaggio simpaticissimo, attento all’ecumenismo e alle questioni sociali, mi colpì perché trascorreva ore intere a studiare la cultura locale nei confronti della quale nutriva rispetto e ammirazione.
Ogni tanto lo andavo a trovare per seguire i suoi sermoni, perché era uno straordinario comunicatore della cosiddetta «teologia applicata». Parlava, ad esempio, della «profezia» in rapporto alle violazioni dei diritti umani che venivano perpetrate in molte parti del continente africano; o della «solidarietà» intesa anche come sviluppo sostenibile per il bene dei popoli.
Sebbene conoscesse alla perfezione la lingua lango – era uno straordinario poliglotta – iniziava la predicazione sempre con un saluto ad alta voce, quasi dovesse sillabare ogni singola parola: Good Morning, Africa!
Un giorno, per pura curiosità, gliene chiesi il motivo e allora mi disse che si trattava di una questione personale. Sì, era un saluto che faceva bene a lui, come se ogni incontro fosse l’inizio di un nuovo giorno. Per lui la cosiddetta «alterità» (cioè il carattere dell’altro) non era solo un concetto, ma anzi un paradigma, manifestando la scoperta di un mistero anni luce distante dal nostro immaginario occidentale.
Questo mistero per Joe era la Négritude, una parola francese che lui traduceva in inglese Blackness (in italiano Negritudine) cioè la formula magica dei valori spirituali, artistici, filosofici delle popolazioni afro; nozione che diventò l’elemento fondante del riscatto africano durante le lotte d’indipendenza.
Fu Joe a introdurmi alla lettura di Léopold Sédar Senghor, statista e poeta senegalese, vate e ideologo della Négritude. Joe aveva viaggiato in lungo e largo l’Africa con la sua famiglia e diceva d’aver conosciuto personalmente a Dakar il grande Senghor, rimanendone folgorato dalla statura intellettuale e spirituale.
Ma il regalo più grande di cui Joe mi rese partecipe fu quando mi fece incontrare casualmente il grande Ryszard Kapuscinski, giornalista sempre al servizio dell’umanità, in particolare di quella africana dimenticata e sofferente.
Fu Kapuscinski a spiegarmi un concetto che poi egli ben illustrò nel suo grande capolavoro, Ebano: «Quanto in Europa, e ancor di più in America, l’individualismo è un valore apprezzato, tanto in Africa è sinonimo di disgrazia e di maledizione. La tradizione africana è collettivista, perché lo stare in un gruppo solidale era l’unico modo di far fronte alle costanti avversità naturali. Una delle condizioni di sopravvivenza del gruppo è precisamente la condivisione di tutto ciò che si possiede».
Debbo molto a Joe, scomparso in un incidente stradale, per avermi aiutato a scoprire il sentimento della meraviglia al cospetto di un continente, quello africano, che va amato nel mistero della sua complessità fatta di contrasti e incontri tra estremi.
Una terra sconfinata che impone a ogni viaggiatore un rapporto dialogico-amicale. Ecco perché la parola giusta per stringere un legame tra noi e loro è «cooperare» davvero insieme.
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