Sulle orme di nonno Peppino
Per Francesca Maffietti, la ricerca nel passato del nonno Ippolito Moscatelli, detto Peppino, è iniziata «un po’ per gioco, un po’ per passare il tempo nel primo lockdown della pandemia». Di fondo, la voglia di saperne di più del periodo trascorso in Africa da Ippolito durante la Seconda guerra mondiale e la successiva lunga prigionia in Australia, di cui rimangono tanti ricordi, oggetti, fotografie e persino abitudini.
Ippolito, classe 1917, era un bel giovane milanese di Cormano, operaio in una fabbrica di materiale isolante, e fidanzato con Cecilia Curti, una sarta originaria di Lodi che lavorava in via Dante a Milano. Quando gli arrivò la cartolina di leva, scoprì di non chiamarsi Peppino, come lo conoscevano tutti, e di avere davanti a sé tre anni di servizio militare in Marina. Salutò Cecilia, ignaro che il distacco sarebbe durato quasi dieci anni perché nel frattempo scoppiò la guerra.
All’epoca, Ippolito faceva la spola tra Taranto e la Libia, dove venne imbarcato a bordo dell’incrociatore San Giorgio. La nave ebbe un ruolo militare importante durante l’assedio di Tobruch, e con la caduta della città libica per mano degli Alleati, nel gennaio del 1941, marinai e soldati italiani vennero catturati. La detenzione in Africa si rivelò un periodo durissimo di cui Ippolito non volle mai raccontare molto, e che si concluse con la deportazione in Australia.
Un destino, questo, che tra il 1941 e il 1945 accomunò 18 mila prigionieri di guerra italiani che vennero trasportati e internati in diversi campi di prigionia sparsi per l’Australia. Moltissime informazioni su questo capitolo di storia sono ora facilmente accessibili online grazie al lavoro di Joanne Tapiolas, «storica per caso» del Queensland che da anni svolge ricerche e divulgazione in questo ambito, ed è ormai diventata un punto di riferimento per decine di discendenti di italiani che, come Francesca, sono sulle tracce dei loro nonni.
Nel 2017, Tapiolas ha pubblicato il libro Walking in their boots che raccoglie la storia dei 1.500 prigionieri di guerra italiani nel Queensland. Affascinata fin da piccola dai racconti degli abitanti della zona dove viveva, e che ricordavano i giovani del Bel Paese, Tapiolas ha voluto andare a fondo della questione e, con il volume, è nato il sito internet www.italianprisonersofwar.com che continua ad arricchirsi di nuove scoperte e collegamenti, possibili grazie a persone di tutto il mondo che contattano e scambiano informazioni, foto e ricordi con Tapiolas, i cui nonni erano originari di Palse di Porcia (PN), in Friuli-Venezia Giulia.
Negli ultimi mesi è stata inondata da decine di richieste, complice anche una guida molto puntuale e precisa che, passo dopo passo, spiega ai discendenti come trovare documenti originali negli archivi digitali australiani. «Non mi sarei mai aspettata di arrivare così distante», ammette Tapiolas, il cui lavoro ha permesso alla famiglia di Francesca di aggiungere dettagli importanti alla vita di nonno Peppino.
Dopo lo sbarco a Sydney, Ippolito venne mandato a Cowra, in New South Wales, un campo che all’epoca era poco più di un accampamento ma che, con il passare del tempo e del lavoro dei prigionieri stessi, divenne una piccola cittadina con baracche in lamiera adibite a dormitori, refettori e aule. C’erano anche una cappella, spazi ricreativi, una biblioteca e dei campi sportivi. La vita del campo era scandita da orari precisi, e ai prigionieri venivano date mansioni da svolgere al di là della recinzione di filo spinato. E non mancava il tempo libero che veniva riempito con ingegno e creatività.
Ippolito iniziò a dipingere, principalmente ritratti femminili che copiava da fotografie in cambio di sigarette. «Il nonno non fumava», ricorda Francesca, e con molta probabilità usava il tabacco come moneta di scambio per colori o altri beni. Riportò con sé in Italia alcuni dei lavori realizzati allora, tra cui un album di disegni e un fazzoletto dipinto con il ponte di Sydney.
Tra i preziosi ricordi di quei giorni, sopravvissuti fino a noi, ci sono numerose fotografie (che hanno aiutato Tapiolas ad aggiungere nuovi tasselli al mosaico di storie); un messale in italiano, una guida del prigioniero, una sorta di dizionario bilingue; alcune poesie scritte a mano e un taglio di fresco lana, da cui è stato cucito il vestito che Ippolito indossò per il suo matrimonio con Cecilia, per le nozze dei figli e nel giorno del suo funerale. «L’Australia l’ha sempre accompagnato nei momenti più importanti della sua vita», spiega la nipote che desiderava ardentemente mettersi in contatto con chi aveva conosciuto il nonno.
Durante la sua permanenza in New South Wales, Ippolito aveva vissuto e lavorato per circa due anni in un’azienda agricola a 150 km da Cowra, presso la famiglia Hodges. Non era raro che i prigionieri di guerra andassero a sopperire alla scarsità di manodopera nelle campagne, e stringessero rapporti molto cordiali con le famiglie presso le quali prestavano servizio.
Di quel periodo, Ippolito aveva ricordi molto positivi, nonostante la lontananza dagli affetti. Aveva imparato a guidare e ad andare a cavallo, cacciava conigli, e sulla tavola trovava sempre dolci freschi con la panna, tanto che quando rientrò in Italia, nel 1946, aveva l’abitudine di fare merenda al pomeriggio con una tazza di tè macchiato con il latte.
Grazie al ritrovamento di un dettagliato rapporto militare negli archivi australiani online, e alla preziosa mediazione di Tapiolas, Francesca Maffietti è riuscita a conoscere virtualmente i discendenti della famiglia che ospitò Ippolito e che, a distanza di 80 anni, ricordano ancora con affetto «Paulie» e la sua divisa rossa. Nell’azienda di famiglia, è ancora in piedi la baracca dove nonno Peppino visse per due anni. Gli Hodges avrebbero fatto perfino l’atto di richiamo per il suo ritorno in Australia, ma Ippolito non prese in considerazione questa possibilità nonostante l’appoggio di Cecilia.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!