Fuga da Herat
Il 29 giugno scorso, dopo vent’anni di missione iniziati il 18 novembre 2001, il contingente italiano lasciava Herat. Nonostante le ripetute richieste e le domande inoltrate negli uffici militari e all’ambasciata italiana di Kabul per avere un visto per l’Italia, ai collaboratori afghani dei nostri soldati non veniva data alcuna risposta. Interpreti, proprietari di negozi nella base, fornitori, operai di ditte di logistica e manutenzione, centinaia di persone che temevano quello che sarebbe puntualmente avvenuto, il crollo del governo nazionale e il ritorno dei talebani al potere. La paura più grande era la resa dei conti che ne sarebbe seguita proprio con coloro che avevano collaborato con le forze Nato.
Il panico è stato alimentato dalla rapida avanzata dei talebani che dalle frontiere sono arrivati a fine luglio alle porte di Herat. La Firenze dell’Asia cadeva il 12 agosto, seguita dopo soli tre giorni dalla capitale Kabul. Una fuga massiccia da Herat ha portato a Kabul migliaia di persone che hanno letteralmente intasato l’area antistante l’aeroporto. Qui l’Italia, in accordo con gli altri Paesi Nato, aveva organizzato un ponte aereo per portare in salvo quanti più collaboratori possibile, cinquemila persone in dieci giorni. L’attentato suicida del 28 agosto ha interrotto l’«Operazione Aquila Omnia», lasciando a terra diversi collaboratori con le loro famiglie, ancora nella lista di evacuazione.
Alla prima accoglienza organizzata in Italia è seguita la collocazione dei rifugiati nei centri di accoglienza straordinari. Nei due mesi successivi, da queste strutture si è verificata la fuga della maggior parte degli afghani verso il Nord Europa. È infatti molto radicato il mito della Germania che offre migliori condizioni economiche e un inserimento lavorativo più veloce, dovuto alla presenza di un consistente gruppo di connazionali lì da anni. Un miraggio che ha fatto soprassedere i rifugiati sul fatto che, fuggendo, avrebbero perso lo status di rifugiati che il governo italiano era pronto ad accordare loro per cinque anni (nonostante esista il trattato di Dublino che respinge i rifugiati al Paese che per primo li ha accolti).
Intanto, in Afghanistan, il desiderio più diffuso tra i collaboratori rimasti – giornalisti, attivisti e tutti quelli che non sono riusciti a riparare nei Paesi limitrofi –, continua a essere la fuga. Il ritorno dei talebani al potere per la seconda volta ha gettato tutti in uno sconforto generale che li ha privati di qualsiasi voglia di agire o reagire. «Non penso che il mio Paese abbia più occasione di cambiare» sintetizza A.P., collaboratore che attende di venire in Italia. «Se non è cambiato negli ultimi vent’anni con il supporto del mondo, l’aiuto e il denaro ricevuto, l’Afghanistan non ha alcuna chance» conclude. È anche per questo che l’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), presente nel Paese, sta lavorando per far sì che gli afghani si rimbocchino le maniche e ricomincino a voler vivere e a costruire il proprio Paese.
Il massacro che si temeva all’arrivo dei talebani non si è verificato, anche se sono sempre più le restrizioni in atto nei confronti della popolazione e delle donne in particolare. Eppure sono proprio loro quelle che vediamo scendere per le strade a protestare con coraggio contro i talebani per non essere relegate in casa e per poter continuare a studiare e a lavorare. I vent’anni di missione internazionale Isaf nel Paese non sono passati invano. Le donne hanno acquisito una coscienza di sé e dei diritti a cui non vogliono rinunciare. Se l’Afghanistan riuscirà a cambiare sarà solo per merito loro.
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