L’America al bivio
I vecchi, i giovani e gli strani. Biden, Harris, Trump e il destino del mondo (Luca Sossella editore) è il titolo del saggio con cui il professor Alessandro Carrera affronta i temi dell’attualità politica americana, letti anche in una prospettiva storica, economica e sociale. Carrera è professore di Letteratura italiana, di Culture e letterature del mondo, e direttore del Dipartimento di Lingue classiche e moderne all’Università di Houston, in Texas. L'intervista integrale si può leggere alla fine di questa anticipazione e anche nel suo libro.
Msa. Inflazione, criminalità e sicurezza, migrazioni, guerra in Ucraina e in Palestina, questione Cina e Indo-Pacifico. Sono questi i temi cruciali su cui si gioca la conquista della Casa Bianca alle presidenziali di novembre. Come si presenta quest’America al voto: divisa, arrabbiata, rissosa, vendicativa, isolazionista?
Carrera. L’America è sempre stata divisa, arrabbiata, rissosa e molte altre cose. La polarizzazione politica assoluta di cui siamo testimoni è, però, un fenomeno recente, e data all’incirca dalla campagna elettorale che vide vincitore George W. Bush contro Al Gore nel 2000, per un pugno di voti e con decisione finale della Corte Suprema. In passato ci sono stati molti temi su cui l’elettorato era diviso: la fine della segregazione, i diritti delle minoranze, la visione repubblicana dell’americano fai-da-te che non ha bisogno dello Stato, e la visione democratica di uno Stato non proprio assistenziale, ma comunque più aperto a programmi di «giustizia sociale» (termine che i Repubblicani aborriscono). Tutto questo è cambiato negli anni Novanta. Da un lato, la presidenza Clinton, come il premierato di Tony Blair in Inghilterra, ha unito, anche forzosamente, la sinistra sociale con il neoliberismo riducendo, a poco a poco, tutti gli spazi della sinistra tradizionale e lasciando quindi la classe operaia e medio-bassa senza una vera rappresentanza. Dall’altro lato, ai conservatori è mancato il terreno sotto i piedi, ora che il loro modello economico era stato assimilato dall’agenda democratica, e hanno reagito con un netto spostamento a destra, simboleggiato all’inizio da Newt Gingrich, presidente repubblicano della Camera dei Deputati e arcinemico di Clinton. Da allora, questa frattura si è solo allargata e ha portato al populismo di Donald Trump. Il presidente che più di ogni altro ha cercato di riportare i Democratici a un’agenda veramente sociale è stato proprio Biden, il presidente più di «sinistra» che gli Stati Uniti abbiano avuto dai tempi di Franklin D. Roosevelt, anche più di Obama. Ben pochi sembrano essersene accorti, perfino tra coloro che ne hanno beneficiato. Si spera che la storia lo riconoscerà. Ma, per giustizia, devo aggiungere che l’amministrazione Trump è stata più attenta a prendersi cura della popolazione, durante il Covid, di quanto le parole dello stesso Trump facessero pensare. C’è stata una vera schizofrenia tra quello che Trump diceva e quello che, in realtà, stava accadendo (distribuzione gratuita del vaccino, sussidi alle famiglie, mense gratis per gli alunni delle scuole, ecc.). Molti americani vogliono sentirsi dire alcune cose, che sono quelle che gli dice Trump, ma non pensano mai che siano rivolte a loro; pensano sempre che siano indirizzate a quel lazzarone del loro vicino di casa.
«America First» è ancora solo uno slogan elettorale oppure quella parte di America che sostiene e vota Trump ci crede davvero? Non possiamo non rilevare che l’America è stata «grande» quando ha fatto sentire il suo peso internazionale, e non quando ha preferito isolarsi.
L’isolazionismo è una tentazione della politica americana fin dalla fine della Prima guerra mondiale, durante la quale il coinvolgimento degli Stati Uniti non è avvenuto senza critiche. Poi, negli anni Venti del XX secolo, si trattava di difendersi dal comunismo e dall’anarchismo importati dall’Europa. Negli anni Trenta, per via della Depressione, le tendenze all’isolazionismo si sono accentuate ed è probabile che se il Giappone non avesse attaccato direttamente a Pearl Harbor, gli Stati Uniti ci avrebbero messo molto più tempo a intervenire nella Seconda guerra mondiale. La vittoria contro il nazismo ha fatto sentire «grandi» gli americani, come era giusto, e l’isolazionismo è stato messo da parte. Del resto, non era veramente possibile essere isolazionisti durante la Guerra fredda, dato l’aperto imperialismo sovietico e gli interessi economici che ormai gli Stati Uniti avevano in tutto il mondo. È iniziata così l’era della geopolitica globale e delle guerre per procura, di cui quella del Vietnam è stata la più gravida di conseguenze. La caduta del Muro di Berlino ha fatto pensare a molti che ormai non ci sarebbe stato più bisogno né di isolazionismo né di interventismo. Tutto il mondo sarebbe diventato «occidentale» e si sarebbe riunito sotto la bandiera del capitalismo neoliberista e del commercio internazionale. Ma non è andata così. Se le tendenze isolazioniste sono tornate, è perché gli americani non sono mai riusciti a intervenire con successi duraturi nel Medio Oriente, l’altra area turbolenta che si è aperta dopo la fine della Guerra fredda. L’invasione della Somalia, di cui nessuno si ricorda più, e le guerre in Iraq e in Afghanistan non hanno portato a nessun risultato concreto, e nemmeno la guerra di Gaza vede tutti gli americani uniti in una difesa a oltranza di Israele, come sarebbe stato normale aspettarsi qualche anno fa. Ci sono anche molti americani convinti che non sia compito degli Stati Uniti occuparsi dell’Ucraina. È una guerra europea, e se la dovrebbero sbrigare gli europei. Naturalmente le cose non sono così semplici. Al giorno d’oggi, ogni guerra è una guerra con potenzialità globali, ma chi sostiene con forza il contrario sa di poter contare su un elettorato consistente. Poi, non importa chi vinca, l’isolazionismo non sarà possibile, perché significherebbe lasciare il commercio mondiale nelle mani della Cina, inclusa Taiwan, alla quale la Cina non rinuncerà mai.
Cosa temono di più gli americani? Perdere il lavoro, impoverirsi, non potersi curare, non vedere una prospettiva per i propri figli...
Tutto questo e altro ancora. Per chi non appartiene alla classe medio-alta e non ha investimenti sicuri, la vita negli Stati Uniti è molto più precaria di quanto ci si aspetterebbe nella nazione più ricca del mondo. Da un giorno all’altro, per un incidente, un licenziamento o una malattia non coperta dall’assicurazione sanitaria, tutto può cambiare. Ragionando come un americano, potrei anche dire che questa estrema precarietà è ciò che ha permesso agli americani di non riposare mai sugli allori, di essere sempre all’erta, sempre alla ricerca di nuove possibilità, nuovi approcci alla scienza, all’industria e al commercio. È stato anche questo stare sempre sulle spine che ha permesso all’America di essere quello che è stata, la nazione più innovativa del mondo – e lo è ancora – ma il prezzo sul piano psicologico e della sanità mentale, è sempre stato molto alto, e forse, ormai, ha superato il punto di crisi. Lo si paga in termini di delusione, risentimento, rabbia che portano a sparare agli sconosciuti; di disperazione che conduce alla tossicodipendenza, diffusissima tra la classe operaia; e odio, non per chi ce l’ha fatta, perché nessuno è rispettato in America come il ricco, ma per chi non ce l’ha fatta, perché ti ricorda come potresti finire tu da un momento all’altro.
Gli americani danno un peso reale ai cambiamenti climatici? Vediamo continuamente gli effetti devastanti di uragani e tornadi che si abbattono sul territorio degli Stati Uniti, ma forse manca ancora una coscienza reale dell’emergenza.
Una cosa che molti in Italia non sanno è che la maggior parte delle case americane sono fatte di legno e cartongesso. Se io volessi sfondare i muri di casa mia con un paio di martellate, ci riuscirei. Uragani e tornadi farebbero molto meno danni se le case fossero fatte di mattoni o cemento, ma mattoni e cemento costano di più, e molti americani non potrebbero permettersi di avere una casa tutta per loro, con rimessa, praticello davanti, e cortile sul retro. Detto questo, la coscienza del cambiamento climatico c’è e non c’è. L’industria dei combustibili fossili finanzia soprattutto le forze conservatrici, ma è ben presente anche nel settore delle energie alternative. Bisogna tenere separato quello che i politici dicono e quello che effettivamente accade. I politici non parlano per l’elettore informato o per chi, per varie ragioni, sa già come votare. Parlano per gli indecisi e per chi deve essere riassicurato nelle sue convinzioni e nella sua identità. Il Texas è il centro dell’industria petrolifera mondiale, e a sentire i suoi politici sembra che il cambiamento climatico sia una fola inventata dai cinesi. Poi, però, se uno fa un giro nel nord del Texas, nella zona del Panhandle, vede centinaia di pale eoliche, e magari scopre che lo Stato del Texas finanzia anche parecchie ricerche sulle energie alternative. L’altra faccia della medaglia è che in Texas non ci sono mai stati terremoti, ma adesso ci sono perché la pratica del fracking, l’estrazione violenta di idrocarburi a grande profondità, destabilizza il sottosuolo. La soluzione del problema del cambiamento climatico avverrà quando i costi per continuare lo status quo saranno insostenibili. Se per guadagnare quattro soldi in più devo mettere la mia casa a rischio di terremoto, forse posso concludere che non mi conviene. E se una ditta di assicurazioni rifiuta di assicurarmi la casa perché si trova sulla rotta di un numero crescente di tornadi (come già accade), allora forse una soluzione si dovrà trovare.
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