Il ritorno dei nazionalismi
«Questa non è una guerra religiosa, ma politica. È uno scontro tra due forme di nazionalismo: quello ebraico (il sionismo) e quello palestinese». Nader Hashemi, professore di Politiche del mondo islamico e del Medio Oriente alla Georgetown University di Washington, e direttore dell’Alwaleed Center for Muslim-Christian Understanding, non usa mezzi termini per definire la natura della feroce crisi in atto tra Israele e Palestina, dietro la quale si agita lo spettro dell’Iran. Ciò che spaventa di più di questo conflitto che vede Israele opposto ad Hamas e al movimento di Hezbollah in Libano, è il riacutizzarsi della tensione in quella terra sacra per le tre grandi religioni monoteiste – cristianesimo, ebraismo e islam –, che dovrebbe invece ispirare la pace negli uomini di buona volontà ed elevarli al di sopra delle contese terrene.
Il 7 ottobre scorso, con l’attacco di Hamas a Israele, qualcosa si è rotto, forse per sempre, in questo difficile e tempestoso equilibrio instabile, con la prospettiva di una guerra di lunga durata, un po’ come sta avvenendo in Ucraina, con un inevitabile e drammatico bagno di sangue e una recrudescenza del terrorismo di matrice islamica. «L’Occidente – prosegue Hashemi – sostiene fortemente il sionismo per ragioni storiche e morali legate all’antisemitismo, mentre il mondo islamico supporta i palestinesi a causa dell’eredità del colonialismo e dell’imperialismo in Medio Oriente». Allora in quali termini le tre grandi religioni dovrebbero ispirare la pace? «Si può avere la pace quando a una parte viene negato il diritto all’autodeterminazione e alla statualità?», si chiede Hashemi. «Fino a oggi, l’Occidente ha fortemente sostenuto i diritti degli israeliani ad avere il proprio Stato e la sicurezza, ma non quelli dei palestinesi. Il presidente americano Joe Biden e altri leader occidentali hanno dichiarato: “Io sto con Israele e gli israeliani”. E questo ha senso alla luce delle atrocità compiute da Hamas il 7 ottobre. Ma perché Biden e i leader europei non possono dire anche: “Io sto con la Palestina e i palestinesi”? Perché no?».
In questo scenario, una parte dei palestinesi – almeno quelli che non sostengono apertamente Hamas o che non ne fanno parte – sono vittime due volte: subiscono il potere di Hamas e anche le conseguenze delle sue azioni e, dunque, la rappresaglia di Israele. Nemmeno l’Anp (Autorità nazionale palestinese), «governo legittimo» della Palestina, riesce a gestire il proprio territorio ancora in gran parte sotto controllo israeliano. Tuttavia, come ritiene Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali alla facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, «su questa vicenda le responsabilità politiche del premier israeliano Benjamin Netanyahu sono enormi. Lui ha consentito che il movimento di Hamas crescesse perché, in fondo, un interlocutore palestinese estremista lo esimeva dal portare avanti la strategia dei due Stati, Israele e Palestina, in cui lui non ha mai creduto. E quindi la non eccessiva sorveglianza su Hamas ha consentito di arrestare quel processo. Questo ha indebolito l’Anp, che sarebbe stato un interlocutore possibile. Ma di fronte ai fallimenti, alla corruzione, all’incapacità dell’Anp di ottenere qualcosa da Israele, l’Anp stessa è diventata un fantoccio, uno Stato collaborazionista nella percezione di molti. Nel momento in cui si vuole eliminare la presenza militare di Hamas, si deve essere consapevoli che bisogna farlo avendo in mente un progetto politico. Ammesso e non concesso che sia possibile “sradicare Hamas” come dicono gli israeliani – e io non la vedo così facile –, dopo chi governa Gaza? E chi governa la Palestina? Io capisco la necessità israeliana di mettere fine al lancio dei razzi e alle offensive che partono da Gaza contro Israele. Comprendo la volontà di punire i colpevoli, e quella di vendicare i morti, ma le ultime due motivazioni non possono ispirare un’azione militare. Questa deve porre fine allo stato di pericolo per Israele e, contemporaneamente, portare a una condizione di sicurezza rispetto a quella precedente, e in cui ci sia una prospettiva politica. È fondamentale che la reazione di Tel Aviv non sia guidata dalla vendetta, poiché questa impedisce qualunque futuro quando le armi cesseranno di sparare. Allora sarà importante non aggiungere ulteriore odio gratuito al dolore che già la guerra suscita. Non credo che un governo di emergenza nazionale come quello di Netanyahu sia in grado di seguire una politica di questo tipo».
Netanyahu a caccia di consensi
Una bizzarra coincidenza riguarda i tempi e i fatti che hanno preceduto l’azione terroristica di Hamas. Secondo alcune fonti, dei rumors su un imminente attacco a Israele, riferiti per tempo a Tel Aviv, sarebbero stati sottovalutati. All’alba del 7 ottobre, Hamas ha messo in atto il suo piano compiendo un massacro e facendo decine di ostaggi. Il giorno stesso in Israele erano previste manifestazioni di protesta contro Netanyahu. Così nelle ore successive è cambiato tutto: il Paese si è improvvisamente ricompattato, ed è nato un governo di unità nazionale con le opposizioni. Finora quello che ci ha guadagnato di più è il premier israeliano che ha visto consolidarsi il suo potere nel momento in cui avrebbe potuto essere estromesso.
«Netanyahu ha colto la palla al balzo perché, conducendo la guerra, potrebbe far dimenticare quello che l’80 per cento dei suoi connazionali pensa, e cioè che lui sia responsabile della situazione attuale – ammette Parsi –. E questo è un pericolo, poiché per far cambiare idea agli israeliani, egli dovrebbe conseguire uno straordinario successo militare che gli consentisse di eliminare Hamas, e di ridimensionare l’azione di Hezbollah e dell’Iran. La mia preoccupazione è che nell’area ci sono troppi soggetti convinti di poter farla finita con quello che ritengono il loro problema principale. Per Hamas, Hezbollah e l’Iran il problema è Israele. Per Israele è l’Iran e gli altri due movimenti». Hashemi ricorda che «il conflitto israelo-palestinese non è iniziato il 7 ottobre, né quando Hamas è apparso sulla scena politica nel 1988. Ci sono radici più profonde che risalgono alla Prima guerra mondiale e al ruolo della politica delle grandi potenze nella spartizione del Medio Oriente contro la volontà delle popolazioni locali. Hamas non può essere un partner per il processo di pace, ma nemmeno Netanyahu e il suo governo di coalizione sono un interlocutore adeguato. Chi prende sul serio la pace, deve applicare gli stessi standard morali ad ambo le parti».
Mentre l'Onu (Organizzazione delle nazioni unite) è impotente, il processo di distensione appare compromesso. «Ciascun contendente deve accettare la propria quota di responsabilità – prosegue Hashemi –. Non possiamo dire che una parte sia del tutto pura e innocente e l’altra sia invece un malvagio aggressore. Quegli attori che non accettano l’esistenza di uno Stato israeliano o di uno Stato palestinese, secondo il diritto internazionale, devono essere accusati di aver contribuito a questa crisi. Dai tempi della presidenza di Bill Clinton, non c’è stato alcuno sforzo serio di politica estera da parte degli Stati Uniti per risolvere il problema. Biden era convinto che la questione palestinese non avesse più importanza. Ha concentrato i suoi sforzi diplomatici sulla normalizzazione delle relazioni tra Israele e alcuni dittatori arabi credendo che il conflitto israelo-palestinese potesse essere dimenticato. Ritengo responsabile anche Biden e i suoi consiglieri per questo fallimento».
A rischio gli Accordi di Abramo
L’avvicinamento di Emirati Arabi e Bahrein a Israele sancito, sotto l’egida degli Stati Uniti, dagli Accordi di Abramo del 2020 ha spaventato i sostenitori della causa palestinese. E quello che è accaduto il 7 ottobre sembra il tentativo, per ora riuscito, di bloccare proprio quel processo e anche la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele. «Non sono d’accordo – obietta Hashemi –. Se si guarda alle ragioni dichiarate dagli alti dirigenti di Hamas per l’attacco del 7 ottobre, questi non menzionano gli Accordi di Abramo, ma gli attacchi dei coloni ebrei in Cisgiordania, a Gerusalemme contro i luoghi santi musulmani, e il blocco imposto alla Striscia di Gaza. Vorrei chiarire la natura di quell’atto. Era frutto di un’intesa tra Netanyahu e due dittatori arabi. L’artefice principale è stato il genero di Donald Trump, Jared Kushner. Quindi un accordo tra ricchi e potenti. Non era una pace tra i popoli della regione, che non sono stati né coinvolti né consultati. I palestinesi sono stati totalmente esclusi». E non sono stati i soli a subire questa decisione. «Tel Aviv e gli Stati Uniti hanno fatto credere agli israeliani che avrebbero potuto continuare a vivere le loro vite ignorando la situazione dei palestinesi», puntualizza Hashemi. «Diciassette anni di blocco imposto sulla Striscia di Gaza, dove 2,2 milioni di persone, metà delle quali bambini, vivono in una prigione a cielo aperto, erano considerati un’azione gestibile. Lo stesso vale per la Cisgiordania, dove l’espansione degli insediamenti israeliani aumenta ogni anno a scapito dei diritti dei palestinesi».
L’orso e il dragone
A lucrare su questo conflitto sono in molti, in particolare Russia e Cina. «Putin ha stretto relazioni con la Corea del Nord, con l’Iran. I siti internet di Hamas sono ospitati su server che si trovano in Russia – rammenta Parsi –. A Hezbollah arrivano soldi dall’Iran e dalla Russia. Mosca non si concentra solo sulla guerra in Ucraina, ma cerca di portare la destabilizzazione ovunque può, nel suo progetto di scalfire l’architettura del sistema internazionale. E ne trae un vantaggio diretto. Ora la questione Ucraina viene “coperta” da quella mediorientale. Pensiamo solo ai quantitativi di rifornimenti militari destinati inizialmente all’Ucraina e che invece andranno a Israele. Negli ultimi sei mesi, gli aiuti militari statunitensi sono diminuiti in modo significativo rispetto allo stesso semestre del 2022. Poi Putin si avvantaggia del fatto che il Medio Oriente è il posto più facile dove dividere l’Occidente, poiché europei e americani hanno visioni diverse circa l’ordine nella regione. Per la Russia, la crisi in Medio Oriente potrebbe rendere più evidente l’impasse occidentale sulla questione ucraina». Riguardo alla Cina, c'è il rischio che si rinforzi il proposito di invadere Taiwan. «Per Pechino, un’America che si trova impegnata su due fronti, più direttamente in Israele e indirettamente in Ucraina, è meno attenta e disponibile a seguire il fronte del Pacifico». L’Occidente è sotto pressione. «Siamo di fronte all’apertura di un’era di divergenze tra democrazie e non democrazie – conclude Parsi –. In tempi come questi occorrono politiche che ne tengano conto, valutando i rischi politici che sussistono quando si fanno affari con regimi che possono costituire una minaccia. Quando il presidente Biden sostiene che le democrazie sono sotto attacco, non afferma una cosa molto diversa da quella del Papa quando parla di una “Terza guerra mondiale a pezzi”; solo che Biden ritiene che la Terza guerra mondiale la stanno conducendo i sistemi autocratici contro le democrazie».
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