Un voto che cambia la storia
Mai prima d’ora, nella storia recente, gli Stati Uniti sono arrivati così divisi e rissosi alle elezioni presidenziali, in agenda il 5 novembre prossimo. La campagna elettorale è stata improntata a uno stile bellicoso, imperniata sull’esasperazione del conflitto, e su un antagonismo ideologico, tra Repubblicani e Democratici, declinato più a suon di slogan che non su una seria e pacata disamina dei mali dell’Unione. Un bell’affare anche per gli spin doctors che hanno supportato la comunicazione pubblica dei due candidati alla Casa Bianca. La contrapposizione fra Donald Trump e Kamala Harris appare, dunque, come il paradigma di due visioni opposte della società americana e del suo futuro, oltre che l’esito di due ruoli diversi e antitetici che Washington intende ritagliarsi in un mondo che, con la progressiva evaporazione della sbornia globalista e con le rivendicazioni geopolitiche multipolari di vecchie e nuove superpotenze, sta franando sotto il peso dei revanscismi nazionalistici.
Eppure i temi all’ordine del giorno non mancano: l’inflazione e la riduzione del potere d’acquisto, in particolare da parte del ceto medio statunitense, l’immigrazione, la criminalità, la sanità, il welfare, il dilagare del fentanyl (un oppioide sintetico con proprietà analgesiche e anestetiche, ma usato come una droga), le crisi in Ucraina e in Palestina, la spada di Damocle di Pechino su Taiwan e la minaccia cinese nell’Indo-Pacifico, la mina vagante nordcoreana. Il GOP, Grand Old Party, ha sempre parlato alla pancia dell’elettorato – non solo repubblicano – e alle sue frustrazioni, promettendo soluzioni draconiane e autarchiche. I Democratici, invece, hanno scommesso sulla tutela dei diritti civili, in primis quello all’aborto, e della comunità Lgbtq+, e, ancora una volta, sul recupero dei consensi di un ceto medio inquieto e disorientato che, negli ultimi anni, si è sentito abbandonato, se non addirittura tradito, dalla politica. Con quali ricette? Investire su infrastrutture green e sull’innovazione tecnologica, incrementare la spesa pubblica, cancellare i debiti sanitari, alzare l’aliquota d’imposta alle società, e controllare i prezzi dei generi alimentari per ricostruire la classe media.
Una politica che il «New York Post» ha già ribattezzato come «Kamunism». Tanto che la Harris, per rincorrere il candidato repubblicano, si è rapidamente «trumpizzata» nel suo discorso di accettazione della candidatura, evocando il patriottismo degli americani, promettendo di essere attenta alla sicurezza dei cittadini (quando, alcuni anni fa, si era detta favorevole a tagliare i fondi per la polizia), difendendo a spada tratta le forze armate degli Stati Uniti e invocando una nuova politica di difesa (con il prevedibile ulteriore incremento della spesa militare). È un fatto che con il cambio in corsa del candidato democratico alla Casa Bianca, i maggiorenti del Partito dell’Asinello, dopo aver convinto Joe Biden a recedere, in un battibaleno hanno promosso a tavolino la Harris da imbarazzante outsider a statista di rango con la benedizione dei media americani pro-Dem, senza prima confrontarsi alla Convention di Chicago, ad agosto, e sfidando la roulette dei sondaggi. Ma anche questi vanno presi con le pinze. Forse l’elettorato americano sarà anche meno umorale di quello di altre democrazie occidentali, ma a fare la vera differenza è la quantità effettiva di aventi diritto che si recano alle urne (o che votano per corrispondenza), e che possono ribaltare, in una direzione o in un’altra, anche i sondaggi più accreditati.
La prospettiva peggiore, che tutti gli analisti paventano, è un risultato elettorale sul filo del rasoio, magari contestato e impugnato, che potrebbe trasformare davvero la dialettica politica a cui Trump ci ha abituato, in qualcosa di molto più minaccioso per la democrazia americana. Mauro della Porta Raffo, editorialista, scrittore, presidente onorario della Fondazione Italia USA, evoca un film di Joe Dante del 1997 intitolato La seconda guerra civile americana, ambientato in un futuro (non tanto immaginario) degli Stati Uniti, travolti dagli immigrati, e dove scoppia una guerra civile quando il governatore dell’Idaho si rifiuta di accogliere dei profughi così come invece ha deciso il presidente degli Stati Uniti. «Nel film le ragioni di un conflitto interno sono del tutto diverse rispetto a quelle che si potrebbero ipotizzare adesso – puntualizza della Porta Raffo –. Tuttavia, le differenze enormi esistenti tra le persone che vivono in uno Stato dell’Unione e quelle che vivono in un altro, sono tali per cui si potrebbe anche pensare a una radicalizzazione delle posizioni politiche opposte».
Gli fa eco Bill Emmott, per molti anni direttore del settimanale «The Economist», giornalista, scrittore, consulente di istituzioni internazionali, e autore del saggio Deterrence, Diplomacy and the Risk of Conflict Over Taiwan (Routledge): «Dagli anni Novanta del secolo scorso, gli Stati Uniti sono un Paese diviso a metà tra due visioni diverse della politica e della realtà. Questa divisione è enfatizzata dal sistema elettorale. È strano che in un Paese così grande, la rappresentanza alla Casa Bianca e al Congresso di oltre 300 milioni di americani sia ancora nelle mani di due soli partiti. Questa polarizzazione esclude altre voci che in un Paese democratico dovrebbero invece essere rappresentate a livello istituzionale. Se guardiamo ai Repubblicani, vediamo come il partito sia cambiato completamente negli ultimi anni: da internazionalista e liberista, adesso è diventato un partito trumpiano, “America First”, e protezionista».
Del resto, una riforma costituzionale sarebbe impossibile secondo della Porta Raffo: «Per quale motivo due partiti che, pur alternandosi, hanno la possibilità di governare ininterrottamente, dovrebbero fare harakiri cioè suicidarsi per permettere ad altri di subentrare? A meno che non arrivi un “padre della patria” che decida di cambiare tutto. Ci vorrebbe un De Gaulle, come quando in Francia, a un certo punto, il generale disse: qui le cose non vanno, cambiamo tutto, fondiamo una nuova repubblica e facciamo una riforma costituzionale. Ma dov’è un De Gaulle negli Stati Uniti? E poi oltreoceano non esiste una sensibilità per la partecipazione alla vita democratica come in altri Paesi occidentali».
Quindi le democrazie sono davvero in crisi come sostengono il presidente russo Vladimir Putin e il leader cinese Xi Jinping? «Credo di no – ribatte Emmott –. In Europa la democrazia non è in crisi. Ci sono dei problemi, questo sì, soprattutto sul piano economico e dei redditi del ceto medio. Invece negli Stati Uniti è possibile che, dopo queste elezioni, la democrazia entri in crisi perché Trump, la minoranza estremista del Partito Repubblicano e le forze conservatrici preferiscono cambiare la democrazia americana». Scelte che non potranno non avere riflessi sulle relazioni con i partner europei. «I rapporti con gli Stati Uniti sono molto stretti e il mercato americano è importante: dopo la Gran Bretagna, l’Italia è il secondo Paese europeo esportatore verso gli Stati Uniti. Inoltre ci sono rilevanti investimenti italiani» osserva Mario Del Pero, professore di Storia internazionale e di Storia degli Stati Uniti a SciencesPo a Parigi, autore del saggio Libertà e impero per i tipi di Laterza. «Tuttavia credo che l’Europa debba rafforzarsi, a prescindere da quel che accade oltreoceano». Su questo è d’accordo anche Bill Emmott, soprattutto alla luce della crisi ucraina: «Per l’Europa non c’è un’alternativa rispetto a quella di dover spendere molto di più per la propria difesa, e di diventare più indipendente dagli Stati Uniti. Sia per Harris che per Trump la principale preoccupazione, guardando al proprio Paese, non è la Russia, ma la Cina».
Consumo dunque sono
Alessandro Carrera, professore di Letteratura italiana, di Culture e letterature del mondo, e direttore del Dipartimento di Lingue classiche e moderne all’Università di Houston, in Texas, ha scritto il saggio I vecchi, i giovani e gli strani. Biden, Harris, Trump e il destino del mondo (Luca Sossella editore). E si spinge a fare una disamina approfondita del quadro politico: «Gli Stati Uniti sono sempre stati divisi, arrabbiati, rissosi. La polarizzazione di cui siamo testimoni è però un fenomeno recente, e data all’incirca dalla campagna elettorale che vide vincitore George W. Bush contro Al Gore nel 2000, per un pugno di voti e con la decisione finale della Corte Suprema. In passato ci sono stati molti temi su cui l’elettorato era diviso: la fine della segregazione razziale, i diritti delle minoranze, la visione repubblicana dell’americano fai-da-te che non ha bisogno dello Stato, e la visione democratica di uno Stato non proprio assistenziale, ma comunque più aperto a programmi di “giustizia sociale”, termine che i Repubblicani aborriscono».
utto questo è cambiato negli anni Novanta. «Da un lato la presidenza Clinton, come il premierato di Tony Blair in Gran Bretagna, hanno unito, anche forzosamente, la sinistra sociale con il neoliberismo, riducendo, a poco a poco, tutti gli spazi della sinistra tradizionale, e lasciando quindi la classe operaia e medio-bassa senza una vera rappresentanza. Dall’altro lato ai conservatori è mancato il terreno sotto i piedi allorché il loro modello economico è stato assimilato dall’agenda democratica, e hanno reagito con un netto spostamento a destra, simboleggiato, all’inizio, da Newt Gingrich, già speaker (presidente) repubblicano della Camera dei Rappresentanti e arcinemico di Bill Clinton. Da allora, questa frattura si è solo allargata e ha portato al populismo di Donald Trump. Il presidente che più di ogni altro ha cercato di riportare i Democratici a un’agenda veramente sociale, è stato proprio Joe Biden, il presidente più di “sinistra” che gli Stati Uniti abbiano avuto dai tempi di Roosevelt, persino più di Obama. Ben pochi sembrano essersene accorti, anche tra coloro che ne hanno beneficiato. Per giustizia, devo aggiungere che l’amministrazione Trump è stata più attenta a prendersi cura della popolazione, durante la pandemia del Covid, di quanto le parole dello stesso Trump facessero pensare».
In questo contesto viene naturale chiedersi per chi parteggi la grande finanza che muove l’economia americana e mondiale. «L’impressione è che stia con entrambi i contendenti, Repubblicani e Democratici – chiosa Del Pero –. È evidente che, soprattutto da Clinton in poi, i rapporti tra i leader democratici e la grande finanza sono stati spesso stretti e profondi. È vero altresì che di fronte ad amministrazioni democratiche come quella di Obama e, ancor più, di Biden, che hanno cercato di introdurre meccanismi anche abbastanza invasivi di regolamentazione del sistema bancario, assicurativo e finanziario, di aumentare le tasse sui capitali, e con il sostegno ai sindacati contro alcuni di questi interessi finanziari, ecco che questa finanza, e anche una parte della Silicon Valley, hanno cominciato a guardare ai propri interessi scoprendo che sono più tutelati dai Repubblicani, soprattutto sul versante delle politiche fiscali».
Il ceto medio, vero ago della bilancia di queste presidenziali, rischia però di essere il primo e principale beffato dalle promesse elettorali. Se Bill Emmott pensa che il depauperamento e la perdita del potere d’acquisto sofferto dalla classe operaia e dal ceto medio negli Stati Uniti «siano molto simili a quelli che si registrano in Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia», Del Pero ritiene invece che non sia replicabile il modello da «paese di Bengodi» antecedente la crisi del 2007-2008: «Purtroppo Trump promette di ritornare a consumare a debito come si faceva fino a prima dell’esplosione della bolla speculativa di allora. Il ceto medio, che è stato il più colpito dagli effetti della globalizzazione, tra il 1980 e il 2008 ha potuto consumare a debito anche i beni pubblici fondamentali: sanità, istruzione, ecc. E lo ha fatto indebitandosi sempre di più, beneficiando di questa finanza de-regolamentata, vedendo crescere i prezzi e il valore della propria unica risorsa: la casa», spesso usata come ipoteca per indebitarsi ancora di più.
«Questa doppia bolla speculativa, immobiliare e finanziaria, ha permesso loro di consumare tantissimo – prosegue Del Pero –, e ha prosciugato la quota dei risparmi: quella delle famiglie americane era attorno al 20 per cento del reddito familiare negli anni Settanta del secolo scorso, più o meno come in Europa. Ma poi è arrivata a zero verso il 2007-2008. La gente non risparmiava più. Consumava. E il consumo aveva quasi una funzione compensativa. Nel 2008 tutto questo è saltato». Parafrasando il Cogito ergo sum (Penso dunque sono) di Cartesio, il cittadino americano l’ha trasformato nell’assioma Consumo dunque sono. «Oggi – aggiunge Del Pero – il linguaggio di Trump denota toni nostalgici, da pre-2008, quando tutti “stavano meglio” seppure con un’incombente doppia bolla speculativa. Io credo che un pezzo del ceto medio chieda di tornare a quel “paese di Bengodi” che, però, non sarebbe più sostenibile economicamente».
Hollywood non fa rima con Washington
In questa situazione di incertezza, che peso ha il mondo dello showbiz? Mauro della Porta Raffo sorride: «Conta soprattutto per i media ai quali interessa molto come la pensino George Clooney o Brad Pitt, e magari poco cosa dicano attori di simpatie repubblicane come Robert Duvall o Clint Eastwood. C’è sempre questa tendenza di voler sentire cosa vogliono i vip mentre invece – come sosteneva Indro Montanelli – è fondamentale capire per chi vota il lattaio dell’Ohio oppure, aggiungo io, la casalinga dell’Idaho o del Wyoming perché, alla fine, le cose si risolvono lì. Dopo la crisi del 2007-2008, per il ceto medio la situazione era terribile e portò alla vittoria di Trump nel 2016, e a quella di Biden nel 2020, soprattutto in quell’area che viene definita Rust Belt che abbraccia la Pennsylvania (Stato chiave per entrambi gli attuali contendenti, ndr), il Wisconsin, il Michigan e l’Ohio che, tra l’altro, è lo Stato del candidato vice-presidente repubblicano J.D. Vance». Rust Belt (Cintura della ruggine) prende il nome dal fatto che nelle varie aziende dismesse o abbandonate, i macchinari iniziarono ad arrugginire. «Se in quegli Stati non sono convinti della proposta democratica della Harris – prosegue della Porta Raffo – gli elettori non guarderanno ai diritti civili, ma alla concretezza, e perciò potrebbero essere portati a votare nuovamente per Trump. Questi cittadini, che da alcuni sono considerati come americani di “secondo piano”, hanno perso il lavoro e hanno visto le industrie andare altrove».
Il sogno americano, oggi come ieri, non è appannaggio di tutti. «Per chi non appartiene alla classe medio-alta, e non ha investimenti sicuri, la vita negli Stati Uniti è molto più precaria di quanto ci si aspetterebbe nella nazione più ricca del mondo – osserva, con lucido realismo, il professor Carrera –. Da un giorno all’altro, per un incidente, un licenziamento o una malattia non coperta dall’assicurazione sanitaria, tutto può cambiare. Ragionando come un americano, potrei dire che questa estrema precarietà è ciò che ha permesso agli americani di non riposarsi mai sugli allori, di essere sempre all’erta, sempre alla ricerca di nuove possibilità, nuovi approcci alla scienza, all’industria e al commercio. Questo stare sempre sulle spine ha permesso all’America di essere quello che è stata: la nazione più innovativa del mondo – e lo è ancora – ma il prezzo in termini psicologici, di sanità mentale, è sempre stato molto alto, e forse ha ormai superato il punto di crisi. Lo si paga in termini di delusione, risentimento, rabbia che portano a sparare agli sconosciuti; una disperazione che conduce alla tossicodipendenza, diffusissima nella classe operaia; e odio, non per chi ce l’ha fatta, perché nessuno è rispettato in America come il ricco, ma per chi non ce l’ha fatta, perché ti ricorda come potresti finire tu da un momento all’altro».
Un nuovo secolo americano?
Toccherà alla storia il vaglio del passato e del presente dell’egemonia americana nel mondo, spesso frutto di compromessi, di pagine oscure, di scelte ispirate più alla ragion di Stato che non a un’autentica intelligenza politica. È altrettanto vero, però, che gli Stati Uniti hanno saputo essere autorevoli non tanto quando hanno preferito isolarsi, ma allorché, soprattutto a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale e con l’avvento della Guerra fredda, si sono ritagliati – o si sono arrogati – nel bene e nel male, l’ambiguo ruolo di «poliziotti del mondo». Ma essere egemoni ha un costo elevatissimo. E probabilmente l’«America First» del rinnovato verbo trumpiano, ma anche l’America secondo la vision di Kamala Harris, vogliono iniziare a declinare questo ruolo in modo diverso.
«Quel tipo di egemonia lo costruisci con un mix di coercizione e di consenso, di potenza e di dialogo. Le due cose stanno assieme – osserva Del Pero –. E la credibilità di quell’egemonia dipende anche dalla tua disponibilità a sottostare all’enorme regime di regole che tu stesso hai concorso a costruire. Uno dei problemi è che, da trent’anni a questa parte, gli Stati Uniti hanno sistematicamente adottato dei doppi standard: quello che vale per gli altri non vale per loro stessi. Lo vediamo rispetto alle modalità di conduzione della guerra, in tutto quello che è avvenuto dopo l’11 settembre 2001. Si rivendica – correttamente, a mio modo di vedere – il principio violato di sovranità nazionale dell’Ucraina, ma gli Stati Uniti hanno violato la sovranità nazionale altrui: Kosovo, Libia, Iraq, Afghanistan, ecc. L’egemonia statunitense ha perso di credibilità laddove c’è un’opinione pubblica interna che non è più disposta a sostenere questa egemonia. Quando fa politica estera, l’egemone ha bisogno di costruire un doppio consenso: uno interno e l’altro globale. Oggi gli Stati Uniti sembrano aver perso entrambi».
Che l’opinione pubblica americana sia refrattaria a sostenere le responsabilità e i costi di questa egemonia è sotto gli occhi di tutti. Di più: «L’opinione pubblica internazionale – sottolinea Del Pero – ritiene meno credibile l’atteggiamento di un egemone che ha internalizzato questo doppio standard in cui le regole le applica agli altri, e le viola o non le ritiene applicabili a se stesso». Restano aperte poi alcune questioni specifiche: «Per esempio, i rapporti con Israele e con il Medio Oriente – conclude Del Pero –. Se da un lato gli Stati Uniti hanno ridotto le importazioni di petrolio dall’Arabia Saudita del 70 per cento in poco più di 15 anni, dall’altro c’è un pezzo di elettorato maggioritario tra i Democratici – e non sono solo i giovani nelle università – che oggi simpatizza più per la causa palestinese che non per Israele, e che fa sentire il suo peso sull’amministrazione o sui rappresentanti eletti».
Insomma, il clima culturale è cambiato, innanzitutto con il radicalismo dell’ideologia Woke (letteralmente: Stare all’erta) soprattutto nelle università americane, votata a combattere senza riserve contro qualsiasi cosa sia unilateralmente considerata come un’ingiustizia sociale, razziale o culturale, odierna o del passato. Ma lo abbiamo constatato anche in occasione delle manifestazioni degli attivisti di Black Lives Matter, con il corollario di devastazioni commesse durante le proteste contro le violenze della polizia, o quelle dei suprematisti bianchi nell’assalto al Campidoglio del 2021. Avanguardie di un disagio profondo che potrebbero esacerbare, ancora una volta, i peggiori istinti di un Paese che finora ha sempre cercato di restare unito sui principi della Dichiarazione d’Indipendenza – di cui si celebrerà il 250mo nel 2026 –, e dei suoi padri fondatori, visti oggi da alcuni più alla stregua di un’ingombrante eredità del passato, e da altri, invece, come i prodromi di un nuovo secolo americano.
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