Lascia andare…
«C’è questa cosa che non avevo mai capito nella vita e che ho scoperto molto tardi: ti giochi una buona quantità delle tue possibilità di stare sul pianeta Terra con felicità, sulla capacità che hai di lasciar andare le cose. Dalle più semplici: hai perso gli occhiali? Lasciali andare. […] Hai vissuto un momento di felicità bellissimo con un amico? Il pensiero è sempre: “Rivediamoci” e, invece, lascialo andare…». A esprimersi con queste parole è stato lo scrittore Alessandro Baricco, ospite qualche mese fa di Fabio Fazio a Che tempo che fa? sul canale tv Nove, per raccontare, tra le altre cose, che cosa gli avesse insegnato la grave malattia che sta affrontando.
Ma davvero uno dei segreti di una vita felice sta nel saper «lasciar andare»? E che cosa significa, poi, lasciar andare? «Lasciare andare significa mollare gli ormeggi – risponde sul suo blog Stefano Manera, medico, anestesista e rianimatore, che oggi pratica medicina integrata e funzionale, vale a dire, semplificando, una medicina attenta all’essere umano nella sua totalità –. Significa liberarsi dai nostri attaccamenti. Significa anche comprendere che non possiamo possedere una persona o una situazione e questo, inevitabilmente, può comportare una sensazione di perdita, di smarrimento. Lasciar andare è, in definitiva, accettare l’impermanenza di tutte le cose». Anche il mondo naturale ci insegna l’importanza del lasciar andare: gli animali, infatti, non perseverano mai a oltranza in un’attività che, in un’ottica di costi-benefici, toglie loro quell’energia che va invece destinata a vivere abbastanza a lungo per garantire la sopravvivenza del proprio patrimonio genetico.
Eppure noi esseri umani ci incaponiamo a non voler imparare la lezione, complici anche le forti pressioni di una società (sempre più permeata da valori male estrapolati dall’etica protestante giuntaci da oltreoceano), che attribuisce un significato positivo solo al «tener duro», all’impegnarsi oltre misura, al «non mollare». Lo spiega bene nel suo libro Mollare non è una cosa da deboli (Sperling & Kupfer) la giornalista Julia Keller, la quale racconta, infatti, come la sua vita abbia subito una grande svolta positiva dopo aver deciso di lasciar andare il percorso per ottenere il dottorato in letteratura inglese alla West Virginia University. Questa decisione, confida, è stata difficilissima e l’ha portata a ingaggiare una vera e propria lotta contro se stessa e tutti gli stereotipi che si portava dentro: «Detestavo i corsi, quelli che seguivo e quelli in cui insegnavo. Detestavo l’università, il mio appartamento. Odiavo tutto e tutti, soprattutto me stessa. Perché pensavo che avrei dovuto farcela. […] Non potevo ritirarmi: mi sarei sentita un fallimento, un’incapace». Ma, spiega ancora, dopo aver mollato e aver trascorso il mese successivo chiusa in camera, spaventata dall’idea che gli amici, venendo a sapere che era tornata a casa, le avrebbero dato della perdente, pian piano cominciò a stare meglio: «Alla fine mi trasferii a Washington e andai a lavorare per un giornalista investigativo. Poi trovai un posto in un piccolo quotidiano e quindi in uno più grande. Alla fine approdai al “Chicago Tribune”, dove vinsi un premio Pulitzer per il mio lavoro». Che cosa ci dice questa vicenda? Ancora una volta che spesso i nemici più feroci che ci ostacolano sulla strada del «lasciar andare» siamo noi stessi e l’idea che di noi ci siamo fatti.
Elena Lupo, psicologa a indirizzo biosistemico, autrice del libro Trasforma le tue ferite (Anima Edizioni) lo afferma molto chiaramente: «La fatica più grande, a livello psicologico, nel “lasciar andare” qualcosa, qualcuno o una situazione, sta nel dover abbandonare l’idea che di questa stessa cosa o persona o situazione ci eravamo costruiti. La nostra mente, infatti, è strutturata per analizzare le informazioni in termini schematici, traendone così dei criteri di prevedibilità del futuro che ci diano la sensazione di poter esercitare il maggior controllo possibile. Tutto questo noi lo definiamo sensazione di sicurezza, ma si tratta di un’illusione, perché questo astrarre-schematizzare-semplificare per voler controllare il futuro, in realtà non controlla proprio nulla e ha come unico risultato quello di ostacolare tutti i nostri cambiamenti nella vita. La nostra mente, infatti, cresce, evolve, solo quando impara ad accettare qualcosa che è fuori dal suo schema, dal suo concetto di prevedibilità delle cose». «Tutti noi, per esempio – prosegue Lupo –, desidereremmo utopisticamente che i nostri affetti restassero accanto a noi per sempre, facciamo fatica a concepire la morte. E lo stesso accade quando ci si trova a doversi separare da un amico o, più banalmente, nel caso di un trasferimento di città o di casa o del cambio di lavoro. Tutto quello che porta lontano da noi i nostri affetti o ciò che rappresenta una sicurezza, ci manda “in tilt”, perché va a toccare la sfera dell’attaccamento. E poco importa se siamo consapevoli dell’assurdità del nostro desiderio di avere costantemente vicino ciò che per noi è importante. Perché il lasciar andare, come dicevamo, va a incidere proprio sul nostro senso di sicurezza, oltre che in qualche modo sul concetto di perdita e sappiamo bene che, in ogni ambito, perdere è molto più difficile che acquisire: ce lo insegnano sin da bambini, anche nel gioco, che dobbiamo vincere a ogni costo…».
Paradossalmente, racconta ancora Elena Lupo, tra le cose più difficili da lasciar andare nella vita ci sono i ruoli: «Lo vedo nella mia professione: accettare di dover abbandonare, per esempio, il ruolo di mamma, perché i figli stanno crescendo, può essere doloroso. È come perdere un pezzo di sé, della propria identità e con il quale magari ci si era identificati. Ma se ci pensiamo bene, pure l’identità, in questi termini, è solo una credenza, perché fa parte di quella narrazione che noi abbiamo di noi stessi e che magari non è il nostro vero sé. Spesso lasciar andare può anche voler dire scoprirsi diversi o con reazioni diverse da quelle che ci aspettavamo. E questo, benché spiazzante, è costruttivo».
Se dunque la vita è cambiamento, un continuo lasciar morire qualcosa di noi per far posto al nuovo, imparare a lasciar andare diviene un passaggio fondamentale. Eppure, lo abbiamo visto, non veniamo educati in tal senso nemmeno da bambini. Anche se, a parere di Elena Lupo, non si tratta tanto di educare, quanto di accettare la condizione umana, una condizione di «esuli» su questa terra che – come dicono molte delle religioni o delle dottrine filosofiche più diffuse – ci fa avvertire un acuto senso di nostalgia per quel legame profondo con Dio (Elena Lupo preferisce chiamarlo «Unità»), verso cui la nostra natura profonda ci spinge. «La parabola umana – riprende Lupo – è in realtà una lunga esperienza di separazione, sia in termini molto “umani” (per nascere ci dobbiamo separare dalla mamma, poi, per crescere, dalla famiglia di origine, dai luoghi dell’infanzia e così via…) che spirituali. Noi per tutta la vita rincorriamo la nostalgia di ciò che abbiamo lasciato, cerchiamo di soddisfare il bisogno di appartenenza che abbiamo nel profondo. Non possiamo venire educati in tal senso, dunque, perché vivere in modo costruttivo le separazioni, in attesa di tornare a quell’unione profonda che ci attende, è la “sfida”, se così possiamo definirla, per cui noi tutti siamo su questa terra».
Forse più che di educazione, conclude Elena Lupo, «parlerei di “allenamento”. Il nostro percorso esistenziale è un continuo allenamento all’impermanenza. E il risvolto potente è che, spesso, allenandoci a lasciar andare, ad accettare che nulla rimane per sempre, scopriamo che in realtà non abbiamo bisogno di niente. Un esempio? Perdiamo un oggetto carissimo, qualcosa a cui eravamo profondamente legati. Un oggetto verso il quale avevamo strutturato un’esperienza di attaccamento. All’inizio sperimentiamo un senso di vuoto, poi ne avvertiamo la mancanza, poi, piano piano – ed è questo l’allenamento che dura tutta la vita –, scopriamo che quell’oggetto non era così essenziale. Che in realtà di esso non avevamo bisogno. Impariamo così ad apprezzare, cammin facendo, quella che io chiamo la “bellezza collaterale” che altro non è che la bellezza della vita e che non dipende dagli oggetti, dai ruoli e nemmeno da chi abbiamo accanto. Dipende da ciò che siamo e che abbiamo dentro di noi nel profondo. Lo abbiamo sperimentato chiaramente nel periodo della pandemia, quando la vita ci ha costretti a rinunciare a molte abitudini che credevamo essenziali per il nostro vivere. In un primo momento la loro mancanza ci ha destabilizzati, ma poi abbiamo scoperto che erano superflue. Quel vuoto a cui il virus ci ha costretti è stato quindi l’inizio di un profondo insegnamento: la consapevolezza che poche cose ci bastano, che la vita ci basta, che possiamo sentirci ricchi e grati indipendentemente da ciò che abbiamo e dalla situazione in cui ci troviamo. Questo è un concetto molto “mentale” che riusciamo a comprendere pienamente solo quando la vita ci pone dinanzi, spesso con dolore, a certe situazioni. E torniamo così alla “bellezza collaterale”: quando qualcosa ci viene tolto, soprattutto se sono affetti, la vita non tornerà mai come prima e quindi lasciar andare ed essere felici in senso collaterale non vuol dire dimenticare, non vuol dire sostituire, non vuol dire smettere di sentire quella mancanza, perché questo è utopistico e non sarebbe nemmeno umano. Ma vuol dire: io sento la mancanza, la nostalgia, mi dispiace di non poter vivere più quell’esperienza con quella persona, mi manca la sua voce, il suo abbraccio, ma posso piano piano trasformare questo dolore, scegliendo di guardare quello che ancora c’è. Invece che continuare a fissare il vuoto, in definitiva, posso guardare il bello dell’esistenza. Solo questa esperienza, cioè l’accettare di lasciar andare, ci dona appieno la ricchezza di senso della vita».
Un pensiero, quello appena espresso dalla psicologa, che ha per noi un’eco familiare: che cos’è, in fondo, la povertà tanto amata da san Francesco, se non una continua esperienza di lasciar andare le cose, i beni, ma anche le relazioni “di possesso”, i ruoli, i luoghi, in una totale disappropriazione anche dalla nostra stessa volontà (e quindi pure dalle proiezioni su noi stessi) per poter giungere all’essenza della vita? Una spoliazione totale che non è mai fine a se stessa, ma rappresenta un passo in più verso quella «bellezza» che è l’amore divino, verso l’unità con il Padre.
E non basta. Lasciar andare, infatti, ha molto a che fare anche con il perdono. Lo ha espresso magistralmente Esther De Waal (autrice spirituale inglese, studiosa della spiritualità monastica, soprattutto benedettina, e della tradizione celtica), nel suo bel libro L’arte di lasciare la presa (edizioni Qiqajon): «Sempre più nel corso degli anni sono arrivata a rendermi conto di come perdonare significhi in buona misura lasciare la presa. In fondo il termine greco che traduciamo con “perdonare”, aphíemi, vuol dire “lasciare andare”. Forse mi sto attaccando al dolore e al rancore, alla sofferenza che mi porta alla condizione di vittima. […] lasciar andare il passato, con le sue ferite e le sue ingiustizie, può essere difficile; in parte perché io stessa le coltivo e ne mantengo vivo il ricordo. […] Perché restare attaccata all’odio o ai sogni di vendetta può farmi più male dell’occasione originale».
Giunti a questo punto, comprendiamo bene che, comunque la si guardi, dal punto di vista psicologico, esistenziale o spirituale, «lasciar andare», «mollare la presa», è tutt’altro che «perdere». Anzi. Perché nella vita, come ci ricorda Niccolò Fabi, il cantautore che qualche anno fa ha dovuto «lasciar andare», per una grave malattia, la figlia di 2 anni, Vince chi molla: «[…] Lascio andare il destino / Tutti i miei attaccamenti / I diplomi appesi in salotto / Il coltello tra i denti / Lascio andare mio padre e mia madre / E le loro paure / Quella casa nella foresta / Un umore che duri davvero / Per ogni tipo di viaggio / Meglio avere un bagaglio leggero / Distendo le vene / E apro piano le mani / Cerco di non trattenere più nulla / Lascio tutto fluire / L’aria dal naso arriva ai polmoni / Le palpitazioni tornano battiti / La testa torna al suo peso normale / La salvezza non si controlla / Vince chi molla / Vince chi molla».
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