Tecnologici ma ignoranti
Tutto scorre. Ce lo hanno detto, in tempi ormai remoti, «grandi pensatori» con le loro riflessioni sulla condizione umana. La novità della nostra epoca non è dunque in sé il cambiamento ma la velocità con cui i mutamenti avvengono. Innovazione, tecnologie, digitale, impongono all’umanità ritmi forsennati. Un esempio? Venti anni fa gli smartphone non esistevano, oggi invece li possiede quasi il 90% degli italiani e li usa per accedere a internet. L’84% si informa e scambia messaggi utilizzando programmi di cui non immaginava neanche l’esistenza con punte del 96% tra i giovani ma con un ragguardevole 73% dei più anziani.
Da questi numeri, il Censis, nel suo ultimo studio sulla comunicazione, trae una conclusione: l’uso delle tecnologie non è più prerogativa di limitati gruppi di persone ma è l’intera popolazione italiana a essere entrata nell’era della «biomedialità», un neologismo che per il Censis significa «vita mediata dagli apparati digitali». Tutto bene allora? Non proprio: sulla «svolta» hanno avuto un forte peso pure calamità ed emergenze. Così un fattore decisivo è stata la pandemia con le difficoltà che ha posto al contatto diretto tra le persone. E poi c’è un’altra questione ancora più profonda: se ora passiamo la nostra vita sempre connessi a un «telefonino intelligente», quanto tempo ci resta per leggere, per approfondire, ragionare su ciò che ci sta accadendo? Emergono insomma nuove fratture, una «costellazione di problemi» con cui siamo chiamati a fare i conti.
Ce lo conferma pure il Rapporto Annuale Istat del maggio scorso sullo stato del nostro Paese. Nel campo delle competenze digitali, della capacità, cioè, di usare le tecnologie capendo come funzionano, solo il 46% degli italiani che ha utilizzato internet negli ultimi mesi ha conoscenze quantomeno di base, il 10% in meno rispetto alla media europea, molto sotto Spagna e Germania. Il nostro ritardo è ancora più preoccupante se si pensa che la Commissione Europea chiede che entro il 2030 il livello di competenza salga all’80%. Ma qui si pongono due grosse questioni. In cosa consiste un «saper fare» digitale? Nell’essere abili nel maneggiare le applicazioni dello smartphone o nel capire cosa ci sta dietro, ad esempio i rischi per la sicurezza? C’è poi un altro punto: la responsabilità del «ritardo» sta nella «pigrizia degli italiani» o delle «agenzie educative» che dovrebbero lavorare per la loro alfabetizzazione?
In un certo senso, è lo stesso Rapporto Istat a darci una risposta. Per quanto riguarda lo Spid (il Sistema Pubblico di Identità Digitale) abbiamo raggiunto i 38 milioni di utenti superando la media europea. Un segnale che ci dice che se le istituzioni lavorassero seriamente nel campo dell’alfabetizzazione digitale, le reazioni sarebbero molto probabilmente positive. Il problema è che i cittadini sono abbandonati a se stessi, mancando progetti educativi adeguati. Quella velocità del cambiamento di cui parlavamo all’inizio è un’arma nelle mani dei padroni del mercato. Molte volte la vendita di prodigiose innovazioni tecnologiche nasconde solo intenti commerciali. È bene non dimenticarlo e ricordarlo a chi gestisce la cosa pubblica.
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