Libano, nelle terre dove sorge il sole
Nella grande sala della chiesa della Madonna del Soccorso a Baalbek, capoluogo della valle della Beqā, uno dei cuori del Libano, tre donne stanno preparando abiti per bambini. Una delle tre donne indossa il velo. Un’altra ha i capelli liberi ed è musulmana. La terza donna, Josephine, è cristiana («E basta», dice: non ama definirsi ma è ortodossa).
Sul tavolo ci sono cetrioli, yogurt, pane con za’atar (spolverio di timo e sesamo tostato, una delizia), pomodori. L’incontro diventa una piccola felicità. Miracoli di questo Paese: due donne musulmane, una ortodossa, in una chiesa cattolica maronita. Solo poche parole per dissolvere pregiudizi e aggrapparsi a una speranza.
Baalbek, stupefacente luogo dell’antica Roma, oggi è una città sciita. A fianco della chiesa ci sono i magnifici templi romani; a un passo c’è lo sfavillio delle maioliche della moschea di Sayida Khawla, figlia dell’imam Hussein, bisnipote del profeta Maometto. Luogo sacro per gli sciiti. Non è, questo vivere gli uni accanto agli altri, già un miracolo in un Paese dagli equilibri confessionali aggrovigliati in un inestricabile labirinto politico?
Josephine racconta un altro, piccolo miracolo: una famiglia musulmana conservava i propri risparmi in una scatola di metallo. Un giorno scomparvero. Quei soldi servivano ai figli. La madre incontrò un frate (un frate nella Beqā? Non chiedo quando avvenne questa storia). L’uomo le porse una candela invitandola ad andare in una piccola grotta, dove si trovava una statua di Antonio.
Di sant’Antonio. La donna andò, trovò la statua, accese la candela, rimase per un po’ in compagnia del Santo. Tornò a casa e, lo immaginate vero?, nella scatola ritrovò il denaro. Antonio, «il Santo delle cose perdute». Anche nella Beqā, anche in Libano. Soprattutto in Libano.
Antonio mi ha portato qui, nelle terre del Mashriq, «il luogo dell’alba». Qui, dove il sole sorge. A Baalbek mi siedo, assieme a Iosif, frate rumeno, sulle stuoie della moschea sciita e ascolto il respiro delle preghiere; poi, a sera, partecipo alla Messa nella bella chiesa di Zahlè, celebrata da sei francescani di ogni parte del mondo (indonesiani, italiani, rumeni, coreani, libanesi, polacchi) e cerco di riconoscere, dai gesti, i diversi cristiani: gli ortodossi, gli armeni, i caldei, i maroniti, i melchiti… Mi smarrisco in questo mosaico di fedi, di senso del divino.
Devo a Massimiliano Chilin, frate veneto, e ai suoi 96 anni, il mio viaggio in Libano. Da oltre mezzo secolo vive qui. In anni difficili, anni tra le guerre, ha viaggiato instancabilmente, attraverso il Paese, per andare a vedere di persona, una per una, le chiese dedicate a sant’Antonio. Si era accorto che, in questa terra, sant’Antonio, è ovunque…
Fra Massimiliano ha compiuto un personale pellegrinaggio in una sorprendente geografia antoniana. Il frate scoprì cinquantadue chiese, santuari, cappelle, dedicate al più amato tra i santi. Ne ricavò un prezioso e semplice libro-guida. Cinquantadue chiese per mar Mtannous Badawi, per sant’Antonio di Padova! In una terra stretta, affollata, inquieta, grande come l’Abruzzo.
In Libano non si azzarda un censimento dal 1932. Nessuno vuole correre il rischio di alterare i fragili equilibri politici, religiosi e demografici del Paese. Meglio evitare di contarsi. Meglio non incrinare il vaso di Pandora del Libano. A leggere i dati della Banca Mondiale, i libanesi sono 6 milioni (altri 17 milioni vivono lontano: in Brasile, in Australia, in Canada, negli Emirati).
Sono riconosciute diciotto fedi religiose. Dodici cristiane, cinque islamiche e la presenza (cento persone) di una quasi scomparsa comunità ebraica. Un terzo della popolazione è cristiana, un terzo sciita, un terzo sunnita. E, arroccati su montagne-baluardo, ci sono i drusi, eresia dell’islam.
E il santo più amato è sant’Antonio.
Amore a prima vista
Che ci fai qui, Antonio? Quando sei arrivato? «È qualcosa che va oltre la ragione», mi dice fra César, vescovo dei Latini, francescano conventuale. «Non so spiegarmi il mistero di Antonio», mi conferma fra Tony, frate minore che ha appena riaperto il grande convento francescano di Tiro/Sour, abbandonato da vent’anni. Nemmeno a chiedere: l’immensa costruzione di fronte al mare è dedicata a sant’Antonio.
È come se il Santo di Padova e il popolo del Libano si fossero incontrati e subito amati. Ottocento anni fa, i frati cappuccini sono sbarcati in questa terra: sono stati loro ad aver accompagnato Antonio? «Nel ’600 i maroniti vennero in Italia a studiare – mi dice fra Massimiliano –. A Padova conobbero il Santo, ne rimasero impressionati. Furono loro a portarlo in Libano».
Il grande monastero di Ghazir, curia generale dei maroniti, è dedicato a sant’Antonio. Sorprende l’attenzione di un cristianesimo orientale al Santo portoghese. Nella chiesa del monastero, la foto-tessera di un ragazzino è stata lasciata ai piedi della statua del Santo. Aneddoto: i monaci del monastero di Baabda, capoluogo della regione del Monte Libano, ordinarono a un pittore italiano un quadro dedicato a sant’Antonio abate, qui conosciuto come «Il Grande».
Per l’artista italiano sant’Antonio, invece, poteva essere solo il Santo padovano e ne fece il ritratto con i gigli in mano: i monaci accettarono il destino e accolsero tra di loro il nuovo Antonio. Ad Hadath, sobborgo di Beirut, i fedeli lasciano rosari e piccole icone sugli olivi attorno alla grotta del Santo. Nel giardino della chiesa maronita di Kfarzebian vi è un noce, albero della storia del Santo: già immagino che Antonio voglia costruirvi una cella come fece a Camposampiero.
La piccola chiesa di Karak, nella valle di Beqā, è popolata di decine di statue di Antonio. Père Elie, parroco maronita, mi racconta di una grazia avuta dal Santo: il suo primo figlio. La chiesa maronita accetta preti sposati. Qui, ai pellegrini, si offre olio, incenso e candele. I fedeli legano corde attorno alla statua del Santo: fanno un nodo e chiedono con insistenza una grazia.
A Kfarzeina, terra cristiana delle campagne di Tripoli, città sunnita, donne musulmane salgono alla bella chiesa maronita di Sant’Antonio per sfiorare una pietra miracolosa e invocare il dono di un figlio. Qui, all’ombra di un grande leccio, ogni 16 di agosto, padre Joseph, prete maronita, celebra la Messa per il leggendario anniversario della nascita di Antonio. Davvero, sant’Antonio mi appare ovunque in Libano.
Torno a Jeitah. Venti chilometri a nord di Beirut. Qui vive il vescovo César. «Devi uscire dalle grandi arterie – consiglia – prendere strade secondarie. Qui i poveri sono nascosti. Sono invisibili. Ma vai a Naba, accanto al quartiere borghese dove noi abbiamo la chiesa di sant’Antonio. Vai a vedere». Una strada divide i ricchi dai poveri. Ho visto il film Cafarnao, di Nadine Labaki. Girato per i vicoli di Naba.
Un bambino che porta in giudizio i genitori accusandoli di averlo messo al mondo nell’inferno della povertà. È la Beirut che non vedi mentre parcheggi dietro a una Lamborghini o bevi arak con ghiaccio in un caffè di Hamra. Due volte a settimana, alcuni vecchi di Naba prendono un service, un taxi collettivo, e vanno fino alla chiesa di Sant’Antonio, distolgono lo sguardo dal lusso dei trentadue piani dell’Hilton (proprio davanti alla chiesa) e si siedono alla tavola apparecchiata dai frati.
C’è una festa che annuncia un matrimonio. Il cugino del padre del futuro sposo è un prete cattolico. Il giovane ama una donna sciita. La madre della sposa, velata, racconta al prete che invoca santa Rita. I ragazzi dovranno decidere «come» sposarsi. Le leggi libanesi impongono un matrimonio religioso. Il prete benedice la promessa d’amore dei due ragazzi innamorati.
Che Paese è questo? Leggo un poema di Khalil Gibran, scrittore cristiano diventato celebre con il libro "Il profeta", e quindi scambiato, spesso, per musulmano. Nel 1920, scriveva: «A voi il vostro Libano dei conflitti, a me il mio Libano dei sogni che vi nascono».
Dove tutti sono minoranza
Questo è un Paese insensato. Folle e intrigante. Non è Occidente, non è Oriente: è una porta, una soglia, un ingresso a mondi sconosciuti e gloriosi. Ti avvolge come la tela di un ragno. Con i suoi ragazzi che sognano di andarsene. Con i suoi artisti, le sue donne, i suoi preti, i suoi imam, i poveri, i ricchi. La gente qui si vede, si sfiora, va a lavorare assieme, mangia gli stessi cibi, sa di vivere su fili sottili e fragili.
Le case del quartiere sciita di Tiro/Sour si affacciano sulle corti del convento di sant’Antonio. A Zahlé, nella valle della Beqā, nel campo profughi (migliaia di famiglie sunnite), fra Iosif è abbracciato da cento bambini siriani, figli dell’ultima, tragica diaspora di gente in fuga.
Al porto di Tiro, una grande statua della Madonna benedice tutte le barche dei pescatori. Indifferente al loro credo, immagino. Ad Harissa, la statua aerea di Nostra Signora del Libano è venerata da un incessante pellegrinaggio di cristiani e musulmani.
Terra di contraddizioni, di diversità. Dove tutti sono minoranza. Le bandiere degli uni sventolano a un passo dalle bandiere degli altri. Viene voglia di mischiarle, confonderle, prendere tutti per mano e fare un grande girotondo per sconfiggere la diffidenza sottopelle. Viene voglia di scambiare santi, preghiere, veli, gonne corte, costumi da bagno, tuniche, profeti. Posso chiedere anche io una grazia ad Antonio? Per il suo Libano?
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