Ligabue, l'umanità ostinata

Nel film «Volevo nascondermi», uscito a fine agosto, il regista Giorgio Diritti narra la vita e le opere dell'artista Antonio Ligabue tra genio e follia. 
11 Settembre 2020 | di

L’umanità ostinata. È questo il filo che tesse, e annoda insieme, le opere di Giorgio Diritti, regista e sceneggiatore bolognese, allievo di Ermanno Olmi e Pupi Avati, uno dei più attenti narratori del nostro tempo. Una realtà affrescata sempre con grande cura e limpidezza.

Come ne L’uomo che verrà, sulla strage di Marzabotto vista da una bambina, passando poi per Il vento fa il suo giro, storia realmente capitata a Ostana, fino all’ultimo Volevo nascondermi, interpretato da un magistrale Elio Germano, uscita prevista a fine febbraio poi spostata allo scorso 19 agosto. Un film attraverso il quale Diritti restituisce, con il suo inconfondibile stile asciutto, la vita del pittore, e dell’uomo, Antonio Ligabue, semplicemente «Toni» per chi lo conobbe.

Msa. Perché è importante raccontare l’umanità?
Diritti. Ho sempre voluto narrare storie. Bisogna raccontare cose che abbiano qualcosa da dirci. Cerco di farlo restituendo la realtà in maniera essenziale e autentica e uno dei tanti modi possibili è stato per me il cinema. 

Che cos’ha da dirci Ligabue?
La sua vita ci dimostra che in ogni uomo c’è una potenzialità, un talento. E non è solo questione di dignità, ma di una dote personale, un valore che ha bisogno di trovare, come in Toni, il proprio «ruggito». Nonostante il dolore, l’abbandono e la solitudine, egli era talmente innamorato della vita da non rinunciare mai a se stesso. Come sta scritto sulla sua tomba, a Gualtieri (RE): «Fino all’ultimo desiderò soltanto amore e libertà».

Già nella prima scena a parlare sono gli occhi.
Timidi e impauriti, spuntano fuori da una giacca logora e consunta mentre lo hanno da poco rinchiuso in manicomio. «Volevo nascondermi, ero un uomo emarginato, un bambino solo, un matto, ma volevo essere amato», dirà lui stesso in seguito. L’anima del film, e di Toni, sta racchiusa in una vita trascorsa cercando di imparare a smettere di nascondersi.

Diritti, qual è il suo personale sguardo su di lui?
Di sicuro curioso e stupito. Deriva dall’attaccamento a un personaggio di cui mi innamorai quand’ero bambino che riscoprii, poi, negli anni ’70, quando la Rai trasmise una serie tv su di lui. Lo stesso stupore che mi prende ancora oggi di fronte a un suo quadro. Quello stesso che ho ritrovato, mentre visitavo alcune mostre per prepararmi al film, negli occhi dei bambini, rapiti da tigri, volpi e leopardi immersi in una natura rigogliosa.

Un uomo fragile, rimasto bambino...
Per questo adorava i bambini: erano anime pure, simili a lui. Non hai mai torto loro un capello. Toni scherzava, li faceva ridere. E loro ne erano attratti, proprio come accade alle mostre: gli sguardi curiosi, mentre faceva i versi degli animali, o le parole taglienti quando lo prendevano in giro perché diverso da tutti gli altri adulti.

Come narrare luoghi, persone, linguaggi?
Come farebbe un cronista: andando sul posto. Con Tania Pedroni (sceneggiatrice, ndr) e con Elio siamo stati sui luoghi dove Toni visse, dalle golene lungo il Po alle piazze delle cittadine dell’Emilia Romagna. Qui abbiamo incontrato quanti lo conobbero anche solo incrociandolo per strada. Perché un racconto sia credibile deve partire da dove quella storia ha avuto inizio.

Per tutti era Toni al matt, ma fu davvero un pazzo?
Ligabue venne ricoverato per la prima volta sotto il fascismo, era quello che noi oggi definiremmo un borderline, un barbone: non aveva moglie, non aveva casa, non parlava l’italiano. Se i fascisti gli spiegavano come doveva comportarsi, lui non li ascoltava. In manicomio gli fecero l’elettroshock. Nel suo caso si trattava di una presunta follia. Non si sa ancora oggi se la sua patologia avesse degli elementi originari. La pazzia sta più nell’occhio di chi la guarda che nel corpo di chi la vive.

Un uomo proprio come noi?
A chi non capita di sentirsi inadeguato, sbagliato, sconfitto. Gli autoritratti sono la fotografia del suo stato d’animo. Quegli occhi rivolti all’osservatore non fanno altro che interrogare, chiedere ascolto, riconoscimento, un segno di affetto.

Dove sta la sua ricchezza?
Nella diversità. Il suo essere visto come «diverso» è l’origine della sofferenza, ma anche il nucleo generativo della sua identità artistica e del suo successo. La storia di Ligabue ha un valore ancora più forte proprio perché invita a un’importante riflessione su questo valore. Ogni persona ha una specificità preziosa che, al di là delle apparenze, può essere un dono per l’intera collettività. «Se sono diverso da te vuol anche dire che posso darti qualcosa che tu non conosci…»: queste parole mi sono sentito rivolgere da un ragazzo disabile anni fa.

«Tutti noi siamo ciò che ci hanno insegnato a essere». Lo dice un gerarca nazista a un prete, prima di fucilarlo, nel suo L’uomo che verrà. Cosa salva Toni?
Il trovare una propria misura dell’essere, il non trasformarsi in ciò che non si è. Questo a lui è possibile grazie all’arte. La sua è una grande storia di riscatto, di uno che non molla, un artista vero, un uomo autentico, nonostante i difetti, le fragilità, l’essere brutto e «storto».

Perché è un un artista vero?
Perché per lui l’arte è una necessità, è il pane quotidiano, è l’aggrapparsi ostinato alla vita. Ligabue non dipinge per soldi. Quel momento non gli serve per guadagnare, ma per sentirsi vivo. Era capace di vendere i suoi quadri per due patate e riu­scire così a sfamarsi. Quando, più tardi, i soldi arrivarono sul serio, prima si comprò quattordici moto e tre auto, la sua passione, e poi fece tanta beneficenza. Non dimenticò mai chi lo aveva aiutato anche solo con un sorriso.

Ci fu realmente chi gli diede una mano?
I primi furono quanti scoprirono la sua arte e lo sostennero. Ma poi tanti altri non esitarono a prendersi cura di lui, ospitandolo, come fece la famiglia Caleffi, o anche solo andando a trovarlo in casa di riposo per lavargli i vestiti. È il ritratto di una comunità ispirata ai valori contadini, cattolici e, al contempo, anarchici, che accoglieva sempre e comunque. C’era la capacità di entrare in relazione con il diverso, fosse egli un matto o un forestiero. Dovremmo continuare a nutrire quello stesso coraggio, quella semplicità di stupirci incontrando l’altro. Perché ogni uomo ha sempre qualcosa da dirci, anima una storia che merita di essere raccontata.

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Data di aggiornamento: 11 Settembre 2020
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