Lo scienziato di Dio
In un noto passaggio della costituzione conciliare Gaudium et spes si legge che «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo», per cui «Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (GS 22). Se assumessimo il senso profondo di queste affermazioni dispiegandole in un percorso articolato, ne verrebbe la più efficace e convincente delle «prove» di veridicità della fede cristiana, perché si tratterebbe di descrivere e riconoscere, nella sua incontestabile evidenza, la vita e l’esperienza dell’uomo tale qual è, nella sua complessità, e osservare, poi, che, tra tutte le spiegazioni possibili, soltanto «il mistero del Verbo incarnato» rende ragione piena della realtà della persona umana. Rende, cioè, conto dell’essere e dell’esperienza dell’uomo in tutta la sua ampiezza e ricchezza, anche problematicità, e non solo di alcune sue parti e vissuti, lasciandone all’oscuro altre. Del «mistero dell’uomo», considerato il fatto che la complessità del suo essere, comprensiva delle sue ferite e contraddizioni quanto della grandezza e profondità imperscrutabile della sua coscienza, lo rende effettivamente un «mistero» a se stesso.
Non solo. Si tratterebbe di osservare anche che il quadro della Rivelazione cristiana, il «deposito della fede», il pensato e creduto, il complesso dottrinale compendiato nel Simbolo, non si limita a essere un bel sistema teorico dalla pur luminosa capacità esplicativa della realtà, del nostro essere, dei nostri vissuti, una teoria di cui basti convincersi intellettualmente. Ne risulterebbe, anzi, che questo pensato e creduto è principio di fecondità vitale, che libera l’esistenza – «la verità vi farà liberi» (Gv 8,32) – e la fa fiorire come nessun’altra cosa al mondo. In fondo, che cos’altro è la santità, se non un’umanità pienamente realizzata, nella singolarità personale di ciascun individuo che abbia assunto fino in fondo il senso della «sua altissima vocazione» e assecondato le vie di Dio?
Ne verrebbe che quanto ci propone la Rivelazione biblica sulla realtà del nostro essere, del mondo, di Dio, risponde effettivamente alla nostra esperienza, tanto nella capacità di spiegarne il senso, quanto di interpretarne le dinamiche, viverla e rigenerarla. Ne verrebbe la riprova della sua verità, perché la verità è, appunto, una rappresentazione adeguata della realtà. E se è adeguata, incontrandola in concreto, è in grado pure di tradursi in un principio di azione e interazione con la realtà stessa. Cioè di vita.
Ora, tutto questo è stato fatto, e più di tre secoli e mezzo fa, da uno dei più brillanti e acuti spiriti del Seicento: Blaise Pascal. Nato il 19 giugno 1623 a Clermont-Ferrand e presto trasferitosi con la famiglia a Parigi, sviluppata una precoce esperienza di applicazione agli studi matematici e fisici, Pascal, grazie a un fortuito contatto con l’ambiente, intriso di spiritualità agostiniana, del monastero femminile cistercense di Port-Royal, divenuto a quel tempo un fecondo centro spirituale, riscopre la densità dell’esperienza di fede passando da una pratica abitudinaria a una dedizione intensa e più profondamente vissuta. Dopo la toccante esperienza mistica della «notte di fuoco» del 23 novembre 1654, fissata nella memorabile pagina del Mémorial, Pascal avverte con crescente urgenza la necessità di affrontare il fenomeno dell’incipiente secolarizzazione, già presente in diversi esponenti delle classi medio-alte che si dichiaravano atei o che si vantavano di aver abbandonato la pratica della fede come si fossero liberati di un vincolo frustrante la libertà personale.
Egli progetta allora un’ambiziosa opera apologetica di originalissima concezione: ritenuto inefficace il metodo comune di procedere, nella dimostrazione della verità della fede, per argomentazioni a catena deduttiva, capovolge lo schema e si propone di partire dall’esperienza, dal vivere e sentire delle persone, dalle relazioni, dalle inclinazioni e aspirazioni dell’uomo. Dal fenomeno umano considerato in tutti i suoi aspetti. L’opera rimane però incompiuta, per la morte di Pascal, che sopraggiunge, a soli 39 anni d’età, il 19 agosto 1662. Egli aveva annotato le sue riflessioni su fogli che poi aveva tagliato e ripartito secondo uno schema definito che rappresentava l’architettura progettuale dell’Apologie de la religion chrétienne, quale l’aveva concepita. Queste riflessioni abbozzate, note rapide di idee balenategli alla mente e tempestivamente fissate in una scrittura brillante, impressiva, limpida nella logica delle osservazioni, formano quel migliaio di testi di varia estensione – alcuni brevissimi e fulminanti – noti col titolo di Pensieri. Oggi, grazie alle acquisizioni delle ricerche filologiche maturate dalla metà del Novecento in poi, siamo in grado di ricostruire il percorso dell’incompiuta Apologie, beneficiando dei pensieri che avrebbero dato corpo argomentativo ai diversi passaggi.
L’uomo, tra miseria e grandezza
La partita di Pascal si gioca in tre mosse. A una ricognizione fenomenologica dell’umano, delineato nella complessità delle sue qualità contrastanti di miseria e grandezza che ne mostrano la problematicità quale «soggetto di contraddizioni» (la prima mossa), segue l’individuazione del modello interpretativo più adeguato nel quadro offerto dalla Rivelazione giudaico-cristiana, che renderebbe ragione tanto della grandezza dell’uomo, grazie alla creazione in stato di grazia, quanto della sua miseria, conseguita alla sua caduta (la seconda). Infine, (la terza) una catena di riflessioni mirate sulla Sacra Scrittura, la storicità e affidabilità dei Vangeli, la vita sacramentale della Chiesa e il senso dell’esistenza cristiana, permette di verificare la correttezza del modello interpretativo in quanto solidamente fondato ed effettivamente rispondente alla realtà, oltre che esistenzialmente efficace nel portare a soluzione le contraddizioni dell’uomo e sanarle.
Miseria e grandezza dell’uomo, dicevamo. E la Lettera apostolica di papa Francesco, promulgata per il IV Centenario della nascita di Pascal il 19 giugno 2023, evidenzia questo binomio, che è il fondamento fenomenologico dell’intero percorso, sin nel titolo: Sublimitas et miseria hominis. È la partita, si noti, del fisico sperimentale che, osservato e descritto il fenomeno nei suoi aspetti, valuta diversi modelli teorici ed elegge l’ipotesi più adeguata a spiegarlo, verificando infine con esperimenti la correttezza dell’ipotesi formulata. Ed era esattamente la procedura che Pascal aveva osservato nelle ricerche sul vuoto, che grazie all’esperimento fatto eseguire alla base e in vetta al Puy-de-Dôme, aveva portato alla descrizione degli effetti della pressione atmosferica (che oggi si misura in hectoPascal) e, con questo, alla nascita della barometria, altimetria e meteorologia. In un punto-cerniera centrale va a collocarsi il noto argomento della scommessa (in base alla quale all’uomo, nel dubbio, converrebbe vivere come se Dio esistesse, ndr), che non è un irrazionale «salto» (nel vuoto?) di una fede astratta, ma l’invito a un orientamento di positività – scommettere sul senso dell’esistenza, anziché sul non senso – preliminarmente ai passi successivi della ricerca, che richiedono un investimento personale concreto.
Pascal riesce dunque a disegnare un percorso che è un lineare procedimento argomentativo, rigoroso nella sua strutturazione, grazie alla trasposizione, senza confusione di piani, del metodo scientifico sperimentale, e che si sviluppa al tempo stesso come un percorso di accompagnamento alla conversione, in una dinamica «pasquale» di passaggio dal negativo al positivo, dalle tenebre alla luce della Salvezza. Centrale la questione dei rapporti tra ragione e fede, ridisegnati in una logica di eccedenza nella continuità, per cui Pascal scrive che la fede si pone «al di sopra, non contro» le evidenze dell’esperienza (Pensieri L 185), e che «l’ultimo passo della ragione è di riconoscere che vi è un’infinità di cose che la superano» (188). E a riconoscere doveroso questo superamento è, per Pascal, la ragione medesima, giacché non può essere che questa ad avere lucida coscienza dei propri limiti.
In tale eccedenza trova spazio di dilatazione il «cuore», dilatazione della razionalità stessa e non momento a essa antagonista, termine in cui si addensa in Pascal una complessità di significati di risonanza biblica, per una razionalità sapienziale dal respiro veramente umano, aperta alla novità della grazia e rimessa in gioco nella vitalità dell’esperienza. Una vitalità che mostra infine – ed è qui che si conclude l’Apologie – che l’uomo si autentica nella vita di relazione, e che questa si realizza in pienezza nella carità che scorre nei tralci della Vite, nelle membra del Corpo, nella vita in Cristo.
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