Lo spirito dell'arte

Che cosa significa oggi parlare di spiritualità? In che modo la ricerca dell’Assoluto influisce sull’arte contemporanea? La risposta va cercata al Maxxi di Roma, nell’ambito della mostra «Della materia spirituale dell’arte».
22 Febbraio 2020 | di

«La vera opera d’arte nasce “dall’artista” in modo misterioso, enigmatico, mistico. Staccandosi da lui assume una sua personalità, e diviene un soggetto indipendente con un suo respiro spirituale e una sua vita concreta. Diventa un aspetto dell’essere. Non è dunque un fenomeno casuale, una presenza anche spiritualmente indifferente, ma ha come ogni essere energie creative, attive. Vive, agisce e collabora alla creazione della vita spirituale». È il 1910 quando Vasilij Kandinskij firma uno dei manifesti d’arte più rivoluzionari di sempre. Ancora oggi, oltre un secolo dopo, Lo spirituale nell’arte è fonte di continua ispirazione per tutti gli artisti impegnati a infondere un’anima alla propria opera. In tanti ci hanno provato e ci provano ancora. Alcuni senza riuscirci, altri colpendo più o meno nel segno. Potete cercarli sul web, nelle gallerie, nei libri e per le strade. Oppure potete fare come noi: andare al Maxxi di Roma e visitare la mostra «Della materia spirituale dell’arte» a cura di Bartolomeo Pietromarchi. Certo, alla fine del percorso saranno ancora molte le lacune da colmare. Tuttavia, trovarsi faccia a faccia coi lavori di diciannove maestri da tutto il mondo e con la loro personale ricerca dell’Assoluto è un buon modo per cominciare la propria. Passo dopo passo, installazione dopo quadro, diciassette reperti archeologici completano e segnano il cammino, come le briciole di pane per Pollicino. Provenienti dai Musei Vaticani, dal Museo Nazionale Romano, dal Museo nazionale Etrusco di Villa Giulia e dai Musei Capitolini, urne, sculture e monili rievocano un tempo dominato da riti, metafore, simboli e mitologie. Un tempo lontano, ma anche vicino. Un tempo senza cui oggi l’uomo e l’arte non sarebbero ciò che sono.

Dietro le quinte

La tenda di velluto rosso lascia appena intravedere una lama di luce. Che cosa mai nasconderà l’opera di Matilde Cassani (Tutto, 2019) che apre la mostra al primo piano del Maxxi? «Tutto» risponde la scritta al neon che brilla in cima al sipario. Il teatro che stiamo per scoprire oltre la cortina è un grande open space dove moderno e antico si fondono per raccontare le molte facce di quella spiritualità tanto inseguita dagli artisti di ogni epoca. Incoraggiati da un battito di mani (Live Ammunition!, 2015, installazione audio di Hassan Khan), varchiamo la soglia e calpestiamo un quadrato di colore proiettato al suolo (LightShift, 2015), quasi fosse la porta di un’altra dimensione. Il ritmo sale mentre raggiungiamo una grande colonna foderata di simboli (Remo Salvadori, Alfabeto, 2016). Sedotti da linee curve e rette, seguiamo il loro intrecciarsi nell'opera successiva, il trittico di Francesco Clemente (Crown, 1988): dieci metri di segni e trame che tanto ricordano la corona di spine di Gesù. 

La morte aleggia tutt’intorno. La incontriamo nei quadri di Victor Man popolati di teschi e oscurità, quasi fossero un memento mori a portata di pubblico. Ci incappiamo esaminando l’urna cineraria in bronzo rinvenuta nella necropoli etrusca di Montarano (VII secolo a.C.) e la coppia di mani in bronzo e oro (VII secolo a.C.) appartenente a una statua funeraria di Vulci. La morte è la fine, ma è anche l’inizio di un tempo eterno. Da qui la scelta di esporre lo scarabeo alato scolpito su un frammento architettonico in marmo (I secolo d.C.) e la coppia di pavoni in bronzo dorato di età adrianea (117-138 d.C.) giunti dal Cortile della Pigna in Vaticano. Se il coleottero rimanda al dio egizio Kehpri (colui che ogni giorno spinge il sole Ra fuori dall’oltretomba), i due uccelli alludono a immortalità e risurrezione sin dall’epoca romana e paleocristiana. 

Gesti e riti

Il nostro volo sopra l’eterno prosegue sulle ali della ritualità. Guidati da una serie di mani che pregano, offrono e mostrano nelle foto-incisioni di Shirin Neshat (Offerings, 2019), seguiamo il flusso fino in fondo al corridoio. Un tavolino ricoperto di pennelli e barattoli di colore arresta la nostra corsa. «Indossa i calzari e serviti di blu» esorta una signora che fa la guardia all’installazione di Yoko Ono (Add Color – Refugee Boat, 1960-2016). «Tutto quel che devi fare è “aggiungere colore”!» insiste sorridendo. Due ragazzi l’hanno presa in parola e stanno ricoprendo le pareti della stanza con scritte e disegni. «Volemose bene» si legge da un lato, «Si può fare, basta crederci» risponde il muro opposto. Quel che all’inaugurazione della mostra era un semplice spazio bianco con tre barche di rifugiati al centro, ora è un laboratorio di pittura, un luogo di riflessione e, in definitiva, un rito collettivo. 

Salpiamo dal mare dei migranti per approdare a un oceano meno ostile: quello tessuto da Abdoulaye Konaté e popolato di pesci multicolore (Ocean, Mother and Life, 2015). Per l’artista maliano l’acqua è da sempre un elemento vitale di difficile reperimento, ma è anche una madre generatrice da celebrare con fili e stoffe. Un altro liquido ci attende pochi metri più avanti: è quello contenuto nella vasca galvanica di Namsal Siedlecki, dove l’artista ha sciolto monetine e medaglie prelevate dalla Fontana di Trevi, salvo poi immergerci la scultura in cera di un viandante, copia di un antico ex voto rinvenuto a Clermont-Ferrand, in Francia (Trevis, 2019). Espressione di quella esigenza innata nell’uomo di entrare in contatto col soprannaturale, questo bagno di sacralità ci conduce verso la conclusione del percorso.

Mentre alla parete le colature di colore di John Armleder rigano la tela come tante lacrime colorate (Skateboarding is not a Crime, 2019) in un gioco di equilibri al confine tra arte astratta e decorazione, un mantra s’insinua lento e ostinato nei timpani. Per la sua installazione Mandala (2003), l’artista di origine sudcoreana Kimsooja ha recuperato un vecchio jukebox e – messo a ruotare su se stesso sopra un grande pannello blu – lo ha trasformato in una cassa audio da cui sgorgano canti gregoriani, tibetani e islamici. Il mix di sacro e profano è azzardato, ma funziona. Sprofondati su un saccone ai piedi dell’opera, due ragazzi fissano assorti la traiettoria di quest’ultima. Poi chiudono gli occhi e si abbracciano. Forse in quella sala affollata non raggiungeranno mai il «grado zero» dello spirito, tanto meno l’equilibrio tra corpo e mente. Ma saranno riusciti comunque ad ascoltare e ad ascoltarsi almeno un po’. Scusate se è poco.

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Data di aggiornamento: 22 Febbraio 2020
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