L'uomo delle pietre d'inciampo

Da trent’anni Gunter Demnig cerca di unire memoria individuale e coscienza collettiva, disseminando per l’Europa «pietre d’inciampo». In ricordo delle vittime della Shoa.
26 Gennaio 2020 | di

 

Le parole sono pietre, scrisse Carlo Levi. E qualche volta le pietre possono diventare parole, anzi, possono raccontare storie. Come quella di Franco Di Consiglio che venne arrestato insieme con i suoi familiari il 21 marzo 1944 a Roma, e trucidato tre giorni dopo nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Aveva appena compiuto 17 anni. O quella di Lisette Ascher, ebrea tedesca di 78 anni, che viveva in Jonasstrasse a Berlino quando venne deportata a Terezin, il 17 agosto 1942: morì dieci giorni più tardi. Oppure il dramma di Ada Osima, farmacista di Finale Emilia, nel Modenese, che fu costretta a lasciare il suo lavoro a causa delle leggi razziali, venne arrestata il 7 dicembre 1943, e il 30 gennaio 1944 partì dal binario 21 della stazione di Milano su un convoglio diretto ad Auschwitz: di lei non si seppe più nulla e forse, purtroppo, volò via in una nuvola di fumo. O Augusto Levi, docente alla facoltà di Medicina dell’Università di Padova, deportato ad Auschwitz il 31 luglio 1944 insieme con la moglie Giovanna e il figlio Alvise: nessuno di loro ritornò dai campi di concentramento. E così Mosè e Daniel, Georg e Franziska, Kurt e Martin: i loro nomi oggi brillano nell’ottone delle Stolpersteine, le «Pietre d’inciampo» dedicate alle vittime della Shoah, a tutti coloro che sono stati sterminati, ebrei, attivisti politici, dissidenti, omosessuali, sinti, rom. 

«I nazisti volevano distruggere le persone, trasformarle in numeri e perfino cancellarne il ricordo. Io invece ho voluto riportare i loro nomi nelle loro città e nei loro luoghi», ci spiega Gunter Demnig, l’artista berlinese che già trent’anni fa ha concepito un’idea, un progetto che unisce memoria individuale e coscienza collettiva, e oggi abbraccia più di venti Paesi, in una colossale «scultura sociale» diffusa.

«È scritto nel Talmud: una persona viene dimenticata solo quando si dimentica il suo nome», ricorda Demnig: ogni pietra d’inciampo, dunque, è un massetto, un sanpietrino di circa dieci centimetri di lato con una piccola placca di ottone su cui vengono incisi il nome e il cognome di un perseguitato, la sua data di nascita, il giorno in cui venne deportato e la sua sorte, «assassinato», «ermordet», o magari «schicksal unbekannt», «destino ignoto».

Possono essere commemorati anche i sopravvissuti e coloro che sono riusciti a fuggire verso la Palestina o gli Stati Uniti: tutti sono stati parte di quegli anni terribili. Usualmente la pietra viene incastonata davanti all’abitazione della persona a cui è dedicata, o di fronte al suo luogo di lavoro, alla scuola o all’università che frequentava, al parco in cui andava a giocare.

«Non si cade su queste pietre ma, come mi ha detto uno studente, ci si deve inciampare con la testa e il cuore», osserva Gunter Demnig che ogni anno trascorre almeno 250 giorni in viaggio per posare nuove Stolpersteine: arriva con il suo van e nel luogo prescelto si mette in ginocchio, scava un piccolo spazio per poi collocarvi la pietra, che da quel momento diventa una testimonianza solida, presente, luccicante, al contempo silenziosa e parlante.

Ci sono Stolpersteine già in centinaia di città, da Trondheim in Norvegia fino a Salonicco in Grecia e ad Orël in Russia: più di mille le pietre in Italia, quasi 300 soltanto a Roma, dove alla fine del 2018 ne sono state perfino rubate venti (poi rifatte e reinstallate a tempo di record). La senatrice Liliana Segre, che ha vissuto sulla sua pelle la tragedia dell’Olocausto, presiede il comitato di Milano che si pone l’obiettivo di posare una ventina di pietre d’inciampo all’anno, nell’arco del prossimo quinquennio. 

Per trovare le radici di questo progetto colossale, dobbiamo andare a ritroso di trent’anni, quando Gunter Demnig volle commemorare la deportazione da Colonia di mille rom e sinti, avvenuta nel maggio 1940, e tracciò una lunga linea colorata che attraversava il centro della città tedesca: «Una signora anziana, che abitava da sempre in quella zona, si avvicinò e mi disse “Bravo, è bello quello che fai, ma gli zingari non hanno vissuto qui” – rievoca Demnig –. Mi resi conto che molte storie erano state rimosse, dimenticate, non erano più nella coscienza collettiva. Così decisi di andare avanti: con le pietre d’inciampo ho voluto riportare i nomi delle persone perseguitate nei luoghi in cui erano di casa».

Gunter scelse di incidere questi nomi nell’ottone, «perché è un metallo che si lucida ogni volta che ci passi sopra, e ogni volta è come riaccendere la memoria». Le prime pose furono quasi clandestine, come quella del 1996 a Berlino, poi invece il progetto si è diffuso a una velocità che ha sorpreso perfino lo stesso Demnig: per lui (che oggi ha 72 anni) è diventata l’impresa di una vita. «All’inizio la pensavo più che altro come un’opera d’arte concettuale. Non avrei mai pensato che potesse diventare monumentale – confessa –. Un pastore di Colonia mi disse: “Non guadagnerai mai milioni, ma puoi fare cose grandi partendo dal piccolo”. Il 29 dicembre abbiamo posato la pietra numero 75 mila, e l’interesse è ininterrotto». 

Oggi arrivano richieste da tutta Europa, e non solo: associazioni, istituti storici, gruppi locali e scuole propongono il ricordo di persone, e ogni segnalazione fa partire il percorso che porterà alla creazione di una pietra d’inciampo unica che dialoga simbolicamente con tutte le sue «sorelle». Un requisito richiesto è che la posa della pietra ottenga l’approvazione della città, perché tutto avviene su suolo pubblico, quindi deve esserci condivisione d’intenti e coinvolgimento della comunità. Dal 2005 Gunter Demnig ha affidato la realizzazione «fisica» delle Stolpersteine allo studio di un amico scultore berlinese, ma lui continua a occuparsi personalmente della posa della maggior parte delle pietre: questo gesto semplice rappresenta per l’artista un modo per entrare nel cuore di ogni storia, incontrare familiari o discendenti, raccogliere emozioni e sentimenti. Anche nella disposizione delle pietre segue una sua regola: la Stolperstein dedicata a un bimbo, per esempio, deve sempre stare in mezzo a quelle dei suoi genitori, «come se mamma e papà lo tenessero ancora tra loro, e gli stringessero le mani». 

Eppure non sempre le pietre d’inciampo sono state accolte con favore. Ci sono state critiche, difficoltà e avversità. Qualcuno, per esempio, sostiene che calpestare le pietre possa essere un affronto verso le vittime dell’Olocausto. «Allora non si dovrebbe neppure entrare nella basilica di San Pietro, dove si cammina su vere e proprie tombe – replica Gunter Demnig –. Eppure, quante più persone vi passano, tanto maggiore è l’onore di chi è sepolto là. Le Stolpersteine non sono pietre tombali, e io credo che siano un invito a non dimenticare, a ritrovare nei nomi la Storia: in questo senso, ho ricevuto anche molti incoraggiamenti dai parenti delle vittime».

Sono ormai trascorsi venticinque anni dalle prime pietre, e Gunter ne ha tratto un insegnamento: «Questo progetto è dedicato soprattutto ai giovani – confida –. Certo, sui libri possono leggere che sei milioni di ebrei sono stati sterminati in Europa, ma tutto rimane di dimensioni astratte. Invece, le pietre d’inciampo stanno proprio a ricordare che, tra le persone che hanno tanto sofferto, poteva esserci qualcuno che abitava dietro l’angolo, vicino a casa, nella stessa città». È per questo che Gunter Demnig, aiutato anche dalla moglie Katja, continua il suo viaggio: «Andrò avanti fino a quando le mie ginocchia non mi diranno di fermarmi», sorride. Ma ci sono ancora tante storie da raccontare. E tante pietre da far risplendere.

 

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Data di aggiornamento: 26 Gennaio 2020
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