Ma siamo sicuri che è «solo» una fotografia?
Ogni fotografia di reportage svela sempre, o quasi, una storia. Un racconto di vita che spesso riconduce a un disagio sociale. Ma non è una regola. Quando i soggetti della narrazione fotografica sono normalissime persone adulte, il ricordo si annoda alla mera visione istintiva dell’attimo in cui, per un frammento di secondo, il mondo viene oscurato dalla tendina dell’otturatore nell’istante della ripresa. In quell’infinitesima particella di vita, come per metamorfosi, il messaggio interiore viene decodificato e sfruttato nella costruzione di un’idea. Un pensiero univoco sviluppato attraverso la complicità di un battito di ciglia e un accordo non scritto, spesso soffocato nella vita di uno sconosciuto.
Seppur per un tempo brevissimo, la persona coinvolta accenna il sorriso di una finta adeguatezza e la cortesia di una stretta di mano. Si sprecano anche inutili parole di cordialità seppellite nella mente: ci si muove così, come nell’abitudine di un respiro che accompagna la vita. Non esistono regole imposte, ma solo sguardi di convenienza da allacciare per un’intesa temporanea. Gli adulti comprendono, annuiscono, sanno usare l’esperienza impolverata dal tempo andato: è facile fotografare un «uomo». Molto facile. Chissà, se solo riuscissimo ad andare oltre la fotografia, e capire qualcosa in più!
Ma la fotografia, come in molti sostengono, è un’altra cosa. La visione di un’idea rappresentata è incomprensibile per occhi distratti o semplicemente superficiali. È inammissibile il «solo guardare», senza la riflessione che conduce nell’infinito «dell’oltre fotogramma».
E se i soggetti dei nostri «capricci» fotografici diventassero bambini? Ma non bambini qualunque, mi riferisco a quelli cresciuti troppo in fretta, ai bordi di una strada o nelle periferie dimenticate. Creature impaurite, inermi, a volte diffidenti. Esili corpi trincerati da un’invalicabile timidezza, per proteggersi dalla crudeltà dei grandi. Per nascondersi dal mondo. Qualcuno accennerà spavalderia davanti alla fotocamera, ma sarà solo un gioco per bruciare l’età anagrafica. Per entrare in un corpo più ampio, che ancora non gli appartiene.
La fotocamera incuriosisce i più piccini: si mettono in posa accennando sorrisi, si atteggiano imitando i personaggi della loro infanzia. Intuiscono a cuor leggero che si sta giocando. E che questo gioco è bello. Un divertimento nuovo, che ancora non conoscono. Altri invece, smarriti nella loro giovane intimità, fuggono via come formichine impaurite. È accattivante l’opportunità di confronto con i bambini. Sbalordisce, lascia senza fiato.
Il «cacciatore» di istantanee del terzo millennio si carica di adrenalina, rincorre la «preda»: senza scrupoli gli si pone innanzi, sfiora il volto. Entra negli occhi. Non c’è rispetto: mette a fuoco. Parte un’incontrollabile raffica di «giga», come la scarica di un fucile mitragliatore che atterrisce. Una sparatoria senza sangue, ma solo apparentemente. L’anima del piccolo soggetto si dissolve nell’aria, per poi volare via. Nel mondo dei grandi. Qualcuno lo definisce ancora ritratto, questo: l’ossessiva ostentazione a voler racchiudere un frammento di vita altrui in un fotogramma. La lucida e atavica convinzione che, quell’elemento umano inserito nel rettangolo, che proviamo ancora a chiamare fotografia, possa cambiare il mondo.
Che piaccia o no, il sogno di Jim Morrison di poter far inchinare la guerra al suono di una chitarra si è infranto, è fallito. La luce di una fotografia, nella sua ormai debole forza vitale, non potrà mai trovare l’energia in grado di creare contrasti, soprattutto con il solo ausilio di una radiazione luminosa che arriva dal sole.
È impensabile voler costruire un mondo nuovo sfruttando l’onda della tecnologia. La storia non si nutre di solo progresso, ha bisogno di qualcosa più vicino all’uomo. Senza l’umiltà di sapersi fermare, e provare a capire da vicino toccando con mano, come possiamo ancora pensare di «scattare» una fotografia che serva a qualcosa? Nella complessità di un terzo millennio oramai privo di ogni valore, è pura e inconscia follia. Una malata presunzione atta a separare, e non a congiungere.
Un tempo bastava saper mettere a fuoco un soggetto per essere definiti fotografi, oggi non basta più. Quel centoventicinquesimo di secondo gestito dall’esperienza, che solo pochi decenni or sono permetteva di non far vibrare la rappresentazione fotografica, nei nostri tempi moderni è gestito da un software: qualcuno dall’altra parte del mondo ha pensato per noi.
L’interpretazione del racconto e la sua narrazione hanno occhi nuovi. Le immagini hanno bisogno di esondare oltre il bordo della carta, cedere all’impeto o alla fragilità di un sentimento. C’è sempre più la necessità di capire il «prima» di una fotografia, ma anche il «dopo». Abbiamo bisogno di ritornare a custodire – non di buttare – infinitesimali frammenti di vita passata, che non ritorneranno mai più.
Luci dirette, tempi sempre più veloci, pose domate e strilla sguaiate. Mani ancora troppo piccole che provano a toccare il mondo: son giochi da bambini che ostentano sensi da adulti. È la forza della neutralità che colpisce.
Raccontiamo, andiamo avanti. Proviamo ancora una volta a mettere assieme le piccole storie di una vita quotidiana che non ci appartiene. Come in un puzzle, giorno dopo giorno. Sì, perché se lasciamo cadere nel vuoto un frammento della nostra esistenza, quell’attimo finisce nell’aria. Qualcuno potrebbe appropriarsene, e portarlo via per sempre.
Succede. Succede tuttora, dopo quasi una vita intera: si riprova ancora a guardare, come un tempo. Per interminabili istanti ci si sofferma su un’immagine, la si osserva scrupolosamente in ogni suo dettaglio, ma senza capire il «perché» della sua esteriorità. Dopo tanti anni di approfonditi sguardi faccio fatica a comprendere il vuoto. Ma siamo sicuri che è «solo» una fotografia?