Mayflower, l’altra faccia della colonizzazione
16 settembre 1620: il Mayflower, un galeone costruito dieci anni prima nei cantieri navali di Harwich, nell’Essex, salpa dal porto di Plymouth, sulla costa meridionale dell’Inghilterra. Porta con sé 102 passeggeri. Sono i cosiddetti «padri pellegrini» che, distaccatisi dalla Chiesa anglicana per seguire ideali di fede «puritana», l’11 novembre sbarcano a Cope Cod, nell’attuale Massachusetts, salvo poi creare la colonia di Plymouth e gettare così le basi per gli Stati Uniti d’America.
Ampi mantelli, larghi copricapi, volti provati dal lungo viaggio, ma anche illuminati dalla fierezza e da una gran voglia di ricominciare. Li descrivono così, come degli eroi, le stampe dell’epoca, mentre i pilgrim fathers scendono dalla nave e, guardando l’orizzonte, si apprestano a compiere il loro destino. Dietro questa visione poetica, però, c’è molto di più. In specie, una storia di sopraffazione troppo a lungo taciuta, che ha pesato profondamente sulle sorti dei nativi americani.
Proprio per raccontare l’altra faccia della colonizzazione nel Nuovo Mondo, il centro culturale The Box, a Plymouth, ha allestito nel 2020 la mostra «Mayflower 400: legend and legacy». Un viaggio appunto «tra leggenda ed eredità» che, inaugurato a 400 anni dallo sbarco del galeone inglese, si concluderà il prossimo 2 gennaio.
Radici europee
Una coppia sulla sessantina sfila davanti a uno strano pubblico evanescente: uomini e donne, bambini e bambine. Fianco a fianco. Se ne stanno incollati alla parete come tante sagome, quasi dei fantasmi venuti dal passato. Sono i passeggeri del Mayflower che quel 16 settembre di 401 anni fa lasciarono l’Inghilterra in cerca di un mondo nuovo in cui mettere radici. Una realtà vergine dove professare liberamente il proprio credo (a dispetto dei diktat anglicani), dove lavorare e vivere secondo le proprie regole.
A pochi metri da questa schiera di emigrati d’antan svetta la ricostruzione stilizzata del galeone con cui affrontarono l’Oceano Atlantico. Al posto dell’acqua, però, la nave poggia su un parquet solcato da tante linee che collegano i passeggeri al ventre del Mayflower. Ogni linea è una vita, una storia. La storia di un bambino che si imbarcò tutto solo, di un padre con tanti sogni nel cassetto, di una madre incinta che partorì il suo piccolo a bordo del galeone.
Oltre la grande nave, la mostra inglese entra nel vivo. Documenti sotto teca, dipinti, piatti, vasi, armature, indumenti, scarpe e libri antichi. Su tutti, la prima Bibbia stampata in America. In mostra negli spazi di The Box un totale di oltre trecento oggetti prestati da musei, librerie, collezioni e archivi inglesi, americani, olandesi. Si va dai diari dei passeggeri fino al documento con cui l’Inghilterra concede ufficialmente ai coloni il permesso di stabilirsi in America (Second Peirce Patent). Senza scordare il Mourt’s Relation, uno scritto datato 1622 che racconta le fasi iniziali dell’insediamento della colonia.
Punti di vista
Ma raccontare la storia solo dal punto di vista degli inglesi sarebbe come peccare di parzialità. Per una lettura oggettiva dei fatti non bastano video e schermi interattivi che raccontano l’America pre e post colonizzazione. Neppure una scenografica parete di ritratti contemporanei è sufficiente (giusto alcuni degli oltre 30 milioni di posteri che vantano gli stessi geni dei padri pellegrini, compresi la popstar Taylor Swift e l’attore Benedict Cumberbatch). Nelle sale della mostra «Mayflower 400: legend and legacy» c’è posto anche per i manufatti wampanoag (tribù nativa americana che nel XVII secolo abitava l’attuale Massachusetts), prestati dal National Museum of the American Indian e dalla Harvard Peabody Collection.
Consapevoli che solo fondendo passato e presente è possibile venire a patti con la realtà, i curatori dell’esposizione accostano punte di frecce antiche e utensili per la pesca a qualcosa di molto più recente: la prima opera d’arte commissionata dalla città di Plymouth a un’artista wampanoag. L’oggetto in questione, un vaso firmato da Ramona Peters (alias Nosapocket), ora è entrato a far parte della collezione permanente di The Box. Una scelta alquanto significativa. Rafforzata anche dalla partnership tra la mostra inglese e il Comitato Consultivo Wampanoag.
«È un passo simbolico per la città di Plymouth – conferma Nicola Moyle, a capo della sezione “Heritage, art and film” di The Box –. Perché ci connette ai nativi americani, i cui antenati incontrarono i passeggeri della Mayflower 400 anni fa e ne garantirono la sopravvivenza (insegnando loro cosa coltivare e allevare, ndr). Lavorare con il popolo wampanoag oggi ci aiuta a capire il passato e il presente. Ma anche a guardare verso il futuro».
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