Tesori di un'Italia capovolta

Tra il XVI e il XIX secolo, le valli dell’alto lago di Como sono state scenario di una sorta di flusso migratorio «al contrario» che trovò nel Sud Italia, e soprattutto nella Sicilia con Palermo, la sua meta elettiva.
13 Settembre 2021 | di

Mettersi in viaggio, trasferirsi dall’altra parte d’Italia, fare fortuna o liberarsi della miseria, un giorno tornare e raccontare ai nipoti quel che s’è visto. È una storia che il nostro Paese conosce fin troppo bene e che, in qualche modo, ci ha reso il popolo che siamo. Lo diceva con parole bellissime lo scrittore premio Strega Vincenzo Consolo: «Credo che l’emigrazione sia veramente il cammino delle civiltà». Ma in questa storia (che Consolo, siciliano, conosceva così bene da ambientarci uno dei suoi romanzi più celebri) le coordinate alle quali siamo abituati sono esattamente invertite: si parte dal nord per cercare il successo al sud.

È l’emigrazione «al contrario» di cui sono state protagoniste, tra il XVI e il XIX secolo, le valli dell’alto lago di Como, in particolare il territorio delle antiche pievi di Dongo, Gravedona e Sorico. Strette tra il lago e le montagne che le separano dalla Svizzera, lontane dalle principali città della zona (Como, Lecco e Sondrio), queste comunità rurali videro nei secoli sempre più uomini scegliere la via dell’emigrazione. Tra le tante città d’Italia, la preferita era Palermo, fiorente capitale siciliana, metropoli ricca e cosmopolita. Qui i lombardi si trasformarono in commercianti, fornai, tavernieri, osti, scalpellini, bottegai, orefici. E in poco tempo diventarono benestanti.

Cominciarono così le rimesse verso le famiglie, come avviene per tutti gli emigranti. Poi, con l’aumentare del benessere, essi si organizzarono in comunità, le Scholae Panormi, e cominciarono a tassarsi per contribuire all’abbellimento dei paesi d'origine. A fiorire furono soprattutto le chiese che si impreziosirono di quadri, affreschi, statue, reliquiari offerti delle confraternite di emigrati. Sono i tesori di un’Italia «capovolta» ancora oggi gelosamente custoditi nelle parrocchie di questi piccoli borghi.

Una delle più ricche è senza dubbio la chiesa dei SS. Eusebio e Vittore a Peglio, sopra Gravedona, dal cui portico si ammira il Lario allungarsi verso sud e poi dividersi nei due celebri rami. Tra i ricchi decori secenteschi si trova anche un dipinto del fiammingo Luigi Gentile dedicato a santa Rosalia. Si vede la santuzza (come viene chiamata a Palermo) intercedere contro la peste scoppiata nella città, di cui nel 1666 diventerà patrona.

La forte devozione per la santa tra queste montagne lasciò tracce anche nei nomi femminili, nell’abbigliamento e nei gioielli. L’abito tradizionale indossato dalle donne dell’Alto Lario almeno fino all’inizio dell’Ottocento, il costume della Moncecca, venne ripreso proprio dal culto di santa Rosalia e arricchito con i monili realizzati dai mastri orafi siciliani. Gli stessi gioielli che le famiglie di questi paesi ancora conservano con devozione dopo anni in cui, soprattutto in tempo di guerra e senza conoscerne il reale valore, venivano venduti per sopperire alle necessità.

A poca distanza da Peglio, nella chiesa di San Giacomo Nuova a Livo, ecco un altro dipinto di santa Rosalia, questa volta opera del maestro Pietro Novelli. Nella parte bassa del dipinto – proveniente certamente da Palermo – l’autore ha omaggiato il porto, uno scorcio della città e il profilo del Monte Pellegrino. Situazione che si ripete, anche se con minore perizia tecnica, nel dipinto conservato nella chiesa di San Giovanni Battista a Brenzio. L’iscrizione in bella vista recita: Scolari Panormus fecit per sua dovicione. È il timbro dei committenti che si ritrova anche su reliquiari, busti, calici e pissidi sparsi tra le sacrestie di Gravedona, Gera Lario, Germasino, Stazzona, Vercana, Dosso Liro, la stessa Livo.

Qui le chiese sono addirittura due: fuori dall’abitato, immersa tra i castagneti, sorge infatti San Giacomo Vecchia, piccolo gioiello risalente al XV secolo. C’è chi la chiama «la chiesa delle 23 Madonne» perché tante sono affrescate nei riquadri delle pareti. Nella parte bassa delle figure, aggiunti da mano successiva, si trovano spesso ceppi e catene: sono gli ex-voto degli emigrati che erano stati liberati dalla prigionia dei pirati turchi. Lo statuto delle confraternite, infatti, prevedeva anche un intervento di mutuo soccorso nei casi di difficoltà, tra i quali appunto il pagamento del riscatto.

Che il viaggio comportasse dei pericoli è reso evidente dal fatto che spesso gli uomini facevano testamento prima di lasciare il loro paese. «Mi consolo che per Grazia di Dio siete giunto alla Patria» scriveva nel 1747 da Palermo un emigrato al fratello che aveva fatto ritorno. Iniziata nel ’400 ed esplosa nel ’600, l’emigrazione lariana in Sicilia proseguì fino all’800. Ancora nel 1763, passando per Livo, lo scienziato Domenico Vandelli annotava: «Molti abitanti dimorano assai tempo nella Sicilia e particolarmente a Palermo, fanno gli osti o i fornai. Di colà anticamente portarono qui l’usanza di vestire tutte le loro donne con abito monacale in divozione di Santa Rosalia».

Oggi, oltre alle opere d’arte e ai tanti documenti dell’epoca, a raccontare questa storia ci sono soprattutto le persone: nei vicoli, tra queste case di montagna, nei prati a fare il fieno o sulle panche delle chiese, anche qualche giovane si mostra interessato alle sue origini e orgoglioso di ciò che fu. Vale la pena andarlo a trovare.

(Si ringrazia Marco Alietti, Giacomo Ganzetti e la Comunità Pastorale San Francesco Spinelli per la collaborazione)

 

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Data di aggiornamento: 13 Settembre 2021
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